Perché in questi anni di trasformazioni economiche e politiche, “Don Giovanni” di Lorenzo Da Ponte e Wolfgang A. Mozart piace al pubblico tanto da avere soppiantato, da circa un lustro, “Carmen” di Georges Bizet in quanto opera più rappresentata al mondo?
I dati – si badi bene – non tengono conto delle due rappresentazioni quotidiane proposte a Praga (dove la “prima” si è tenuta il 29 ottobre 1787) in un teatro di marionette con la musica registrata. Parte della risposta è stata data su IlSussidiario.net del 6 dicembre interpretando il testo e la musica con gli strumenti della teoria dei giochi applicati alla politica ed all’economia. Ciò indica come il mito, ancorché, antichissimo sia attualissimo.
Due anni fa, ad inaugurazione del festival di Aix en Provence, un’équipe di russi, giovani ma già affermatissimi (Dmitri Tcherniakov, Elena Zaitseva, Alexei Parin) e la direzione musicale di Louis Langrée alla guida della Freiburger Barockorchester (che utilizzava strumenti musicale d’epoca, ossia di fine Settecento) trasformava “il dramma giocoso” in un “ritratto di famiglia in un inferno” in una Russia degli anni del crollo di quella che fu l’Unione Sovietica. Non molto tempo fa alla Scala, Peter Mussbach (nel 2006 con la concertazione di Gustavo Dudamel e nel 2010 con quella di di Langrée) lo rendeva un cupo dramma di periferie violente. Le crinoline, le parrucche e anche la marionette si sono viste di recente nell’edizione di Franco Zeffirelli portata a Roma dal Metropolitan e in una produzione che ha girato con successo in teatri “di tradizione” veneti e marchigiani. Tuttavia, “Don Giovanni” parla di valori universali che meglio si comprendono se portati nel contesto attuale.
L’edizione che ha inaugurato la stagione della Scala 2011-2012 non solamente porta la vicenda ai giorni d’oggi ma è chiaramente frutto di stretta collaborazione tra l’impostazione drammaturgica (regia di Robert Carsen, scene di Michael Levine, costumi di Brigitte Reiffenstuel, luci dello stesso Carsen e di Peter van Preat) e della direzione musicale di Daniel Barenboim. Ne risulta una grande integrità concettuale sia scenica sia musicale.
L’opera non è un “dramma giocoso”, come indicato nel libretto, ma una riflessione al tempo stesso desolante e struggente sulla condizione umana – ipocrita, falsa, lussuriosa. Colpo di scena finale: il Don riemerge dagli inferi fumando una sigaretta, ma ci finiscono tutti gli altri (ossia il mondo perbenista che lo circonda).
In primo luogo, sin dalla ouverture si avverte che siamo di fronte a qualcosa che è ben diverso da un’“opera buffa” o da un “dramma giocoso”. Dalle prime misure si avverte il fuoco dell’inferno (che, tre ore più tardi, concluderà l’opera); il quadro è cosmico. In secondo luogo, il trattamento musicale del protagonista non ne fa né una caricatura del libertino quale tracciata da Tirso de Molina e José Zorrilla, né un proto-illuminista molieriano. La note di Mozart, avvolgono Don Giovanni in quel clima luciferino che si ritroverà, ad esempio, alcuni lustri più tardi nell’“opera nazionale” tedesca per sottolineare il carattere demoniaco di Kaspar de “ Der Freischütz”di Weber oppure, un secolo più tardi, della Nutrice di “Die Frau ohne schatten” di Strauss.
È, però, un luciferino melanconico di un’umanità senza direzione. Il “Don” non è un seduttore; sono le tre protagoniste femminili (pure se coperte di perbenismo) che vogliono fare l’amore con lui, e non riescono mai a completare l’atto. E i loro uomini (Don Ottavio, Masetto)? Fingono di non sapere quale è il gioco che si sta giocando. Unici personaggi positivi Leporello e il Commendatore che comprendono e commiserano la desolata e desolante compagnia che andrà con loro all’inferno.
La concertazione è perfettamente in linea con questa lettura. Daniel Barenboim dilata i tempi, secondo alcuni anche oltre i filologicamente ammissibile: l’opera dura circa 20 minuti in più della versione che lo stesso Barenboim registrò nel lontano 1973 e che in questi giorni il mensile Classic Voice ripropone con il suo ultimo fascicolo). Non sarà una lettura filologica (d’altronde la versione originale detta “di Praga” viene interpolata con quella , successiva, detta “di Vienna”), ma è necessario per fare toccare con mano il senso di tragedia moderna in quello che Mozart iniziò con un “do” che richiama gli abissi dell’inferno.
L’orchestra asseconda Barenboim dando una tinta scura alla partitura, anche nei momenti apparentemente più “giocosi” (la festa, il duettino Masetto-Zerlina). Nel cast eccellono Mattei, Bryn Terfel, Barbara Frittoli, Anna Netrebko e Kwangchul Youn. Troppo leggero il timbro della Zerlina di Anna Prohaska e troppo scuro quello del Masetto di Stefan Kocán. I critici in sala si sono divisi: a chi (come a me) questa lettura è piaciuta moltissimo, al pari di quella Dmitri Tcherniakov; chi ha censurato la mancanza di brio, di crinoline e di parrucche. Ma il Mozart ammalato di nefrite e rincorso dai creditori poteva vedere con brio l’autunno-inverno 1787 e un mondo che – lo sappiamo bene – sarebbe di lì a poco crollato. E’ la tensione verso il nuovo degli “erodiani” che sovente soccombono proprio per eccesso di modernizzazione.
E’ un contesto molto differente da quello in cui vivono gli altri personaggi dell’opera: il mondo musicale dell’opera “all’italiana” fatto di cavatine, arie, cabalette, duetti, terzetti e concertati. Regole ben definite che assicurano certezze – informazioni simmetriche e costi di transazione relativamente bassi e in cui il pay-off, pur se limitato, conviene a tutti, da “utilitarismo delle regole” un po’ casareccio e pacioccone.
Si guardi, in particolare, a Don Ottavio, un baritenorino lirico, caricatura dei tenori (Mozart come più tardi Strauss non li ha mai amati) di “Idomeneo”, di “Così” e dello stesso “Die Entführung”. Musicalmente, i due mondi, i due “sets” di “habits and rules”, restano paralleli, distinti e distanti: si incontrano solo nel lungo finale primo. Non c’è evoluzione, con l’”olocausto” di uno dei “falchi”, per schiudere una società di “colombe”.
Con grande raffinatezza, sono due mondi in “re”: re minore quello luciferino, ma modernizzatore, del Don e del Commendatore; re maggiore quello perbenista di Don Ottavio e del resto della brigata (Leporello, Donna Anna, Donna Elvira, Masetto, Zerlina e compagnia cantante). D’altronde, Mozart non avverte il verwandlung socio-politico (quindi, economico) in atto negli anni in cui componeva “Don Giovanni”. Gliene viene offerta l’occasione almeno in due libretti – “Le nozze di Figaro” e “La clemenza di Tito”, ma si rifiuta di coglierla; tramuta il primo in una commedia umana e il secondo in inno alla “quality of mercy”.
Cosa c’è di questo impianto nel lavoro che ha debuttato, non senza contrasti a Aix? Tanto la drammaturgia di Tcherniakov e soci, quanto la direzione musicale di Langrée quanto, infine, la bravura sia nella vocalità sia nell’azione scenica dei sette protagonisti, recepiscono a pieno questa lettura “political economy” e “musicale”. Ma va anche oltre. Quello del “Don” diventa un dramma di famiglia in cui tutti e sette protagonisti sono imparentati tra loro (tranne Leporello). In un ambiente unico (un grande salone biblioteca di borghesia agiata, tale da trasformarsi agevolmente in sala da pranzo) e su cui danno quattro camere, avviene un vero e proprio “gioco al massacro”. L’ambiente unico e il “gioco al massacro” in un ambiente familiare sono un topos della drammaturgia russa (si pensi a Chekov). Ma nella lettura di Tcherniakov è intriso con Tennesee Williams, Luchino Visconti, Bernardo Bertolucci e anche Pier Paolo Pasolini. Bo Skovhus – è noto –è da anni uno dei baritoni più belli sulla scena internazionale. E’ truccato e vestito come Marlon Brando in “L’ultimo tango a Parigi”; è dominato dal sesso e dall’alcool più che essere un dominatore di chi lo circonda; dalla prima scena va verso l’inevitabile sconfitta. Anatoli Kotsherga (un ricco borghese perbenista) è il suo vero antagonista.
E le donne? Sono assatanate di sesso più di quanto non lo sia il “Don”: Donna Anna, dopo essere uscita semi-nuda da un amplesso con il protagonista, quasi violenta Don Ottavio al fine di risvegliargli l’eros. La festa di Masetto e Zerlina è un orgetta per gioventù bene nella grande famiglia del Commendatore. In questa famiglia, infine, sono tutti disperatamente soli.
Il “gioco ad ultimatum” tra il Don e il Commendatore si svolge in solitudine. E così quelli degli altri. A questa drammaturgia, senza dubbio innovativa (e che potrebbe richiedere alcuni ritocchi nella seconda parte), corrispondono cantanti attori abilissimi e un’orchestra che estrae i suoni dell’alienazione e dell’inferno da strumenti settecenteschi. In breve: uno spettacolo “da festival”, che può risultare sgradevole al pubblico più tradizionalista, ma che vale la pena comunque vedere e che fa meditare.
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