Richard Wagner adorava Venezia; per questo motivo, vi tornò a morire, anche se era ancora relativamente giovane (aveva 70 anni), un 13 febbraio denso di nebbia e di umidità. Non so se Benjamin Britten pensasse alla morte a Venezia del padre del Musikdrama quando, appena sessantenne ma già con una grave disfunzione cardiaca (delle cui possibili conseguenze aveva piena contezza), affidò a Myfanwy Piper il compito di ridurre, in 17 rapide scene, il romanzo di Thomas Mann “Der Tod in Venedig”; erano gli anni in cui Luchino Visconti, anziano e già visibilmente malato, aveva portato, con un cast internazionale, la novella sullo schermo, ottenendo un buon successo di critica e di pubblico.
La lettura del racconto di Mann fatta da Britten è molto differente da quella che, più o meno negli stessi anni, faceva Visconti. Nel film del regista italiano si dava molto rilievo all’attrazione erotica come aspetto fondante del dramma. Nel lavoro di Britten, tale attrazione, pur presente, è meno importante della crisi dell’intellettuale di fronte all’invecchiamento ed alla morte, alla consapevolezza dell’indebolirsi della creatività, ai suoi rimpianti ed anche al rimorso per le colpe commesse.
“Death in Venice” è opera di rigore estremo, segnata dalla relativa povertà, dei mezzi utilizzati (dall’organico strumentale alle voci ed allo stesso corpo di ballo, appositamente pensati il piccolo teatro di Aldeburgh). Il flusso orchestrale fluido e continuo, non copre mai una sola parola dello splendido libretto. Il linguaggio musicale è chiaramente connotato: il cromatismo appartiene al mondo di Aschenbach, il ritmo orientaleggiante a quello di Tadzio.
Ci sono anche evidenti motivi conduttori; dalla linea dodecafonica iniziale di Aschenbach, che ritorna in varie versioni, al tema gamelan di Tadzio fino al tema quasi tonale del deuteragonista, la “morte” incombente che si presenta di volta in volta nelle vesti di un viaggiatore, di un barbiere, di un gondoliere, e via discorrendo. E’ un tema presentato già all’inizio dell’opera nell’arioso “Marvels unfold” e che via via accompagna il basso-baritono nelle varie caratterizzazioni sceniche.
Nonostante l’evidente assunto autobiografico, non troviamo nell’opera alcuna contemplazione estetizzante della morte anche se la death ricorre sin dal titolo e dalla prima scena al cimitero. Britten sapeva che “Death in Venice” sarebbe stata la sua ultima opera. Però, più che un’attesa della fine (come nel romanzo di Mann e soprattutto nel film di Visconti), la pagina è una riflessione di un sessantenne sulla giovinezza che non c’è più (“la stagione che ha un tempo solo” delle “Scènes de la vie de Bohème” di Murger).
La grande idea teatrale della Piper è l’incomunicabilità tra il coltissimo, eloquentissimo e raffinatissimo Aschenbach, da un lato, e “gli altri”, dall’altro: Tadzio e la sua famiglia sono mimi che non hanno parola; con i ruoli minori si scambiano solo frammenti di frasi; c’è un unico interlocutore: la morte, nei suoi sette volti interpretati da un unico cantante (il baritono). In effetti, Britten aveva già scritto la “sua” contemplazione della morte, una contemplazione particolarissima di un credente segnato dalla propria omosessualità, la aveva scritta due volte in quei grandi capolavori che si chiamano “Billy Budd” e “War Requiem”, poco rappresentato, il primo, in Italia ma in programma il secondo questa stagione all’Accademia di Santa Cecilia.
Britten è morto il 4 dicembre 1976. Quasi a 35 anni dalla fine della sua esistenza terrena, il Teatro alla Scala ha proposto l’allestimento prodotto nel 2007 dall’English National Opera e riprese nel 2009 a La Monnaie di Bruxelles. Un’eccellente idea di portare a Milano, dove l’opera non era mai stata rappresentata, una produzione esemplare. E’ una messa in scena molto differente da quella, elementare, creata nel 1973 nel teatrino di Aldeburgh e vista pochi mesi dopo a La Fenice, nell’unica esecuzione scenica italiana prima di quella genovese del 1999 ripresa a Firenze nel 2002 ed a Venezia nel 2008.
Mentre la produzione di Genova-Firenze-Venezia colpiva per l’eleganza (l’allestimento era affidato a Pier Luigi Pizzi), utilizzando al massimo la tecnologia ed i vasti palcoscenici (sia del Coliseum di Londra sua della Scala), la regista Deborah Wagner ha dato vita ad una Venezia stilizzata in stile Anni 20 con un forte contrasto tra la città (umida , calda e scura perché densa di nubi di scirocco) ed il luminoso Lido. In questa Venezia filtrata dalla memoria, il tenore John Graham-Hall (Aschenbach) in grande forma , contempla la propria vita, inseguito da un Peter Coleman-Whright sorprendente per versatilità e destrezza nei sette ruoli prevista dalla parte. Il protagonista insegue la giovinezza perduta raffigurata da Tadzio (il ballerino Alberto Terribile) ed echeggiata nella voce di Apollo (il controtenore Iesty Davies).
Graham-Hall ha una vocalità simile a quella di Peter Pears, per cui è stato concepito il ruolo: un solido registro centrale da cui svettano acuti . Accanto a lui , il pur bravo Peter Coleman-Whright mostra una consistenza vocale un po’ sottotono (così almeno ci è parso la sera della prima). L’orchestra della Scala, diretta da Edward Gardner completa il quadro di uno spettacolo memorabile. Gardner privilegia tempi dilatati che, specialmente nel secondo atto, rendono lo spettacolo ancora più struggente.
Il pubblico, di solito sospettoso nei confronti musica contemporanea, ha espresso il suo convinto apprezzamento per l’opera britteniana. La sera della prima vere e proprie ovazioni per John Graham-Hall ed applausi per tutta la vasta compagnia.