C’è elettricità nell’area sin dal primo pomeriggio, c’è quel fremito che ha accompagnato le notti europee della formazione azzurra. C’è quell’urlo della Torcida azzurra che chiude lo spettacolare inno della Champions League. Ci sono Lavezzi e Cavani. C’è una città che per novanta minuti abbatte ogni ricordo ed ogni delusione, per riabbracciare i suoi beniamini; i suoi eroi. Chiamateli campioni. Non campioni di tecnica, né di qualità ma campioni di cuore e grinta, capaci di ridurre sino ad annichilire gap tecnici ed economici con i colossi del calcio europeo. Una squadra aggrappata a questa competizione con le unghia e con i denti, consapevole delle difficoltà e del rischio di non rivederla la prossima stagione questa coppa. È un sogno ma anche molto di più e poco importa se, in fondo, in fondo, ognuno ha la consapevolezza dell’insidia di un risveglio sempre nascosto dietro l’angolo. Vivere dell’oggi, senza preoccuparsi del domani.
Quello che hanno insegnato a questa squadra sin dal primo giorno di cura Mazzarri. Quello che questa squadra prova a fare consapevole di tutti i suoi difetti. Una favola che ha il volto di Salvatore Aronica, di Gianluca Grava, di Paolo Cannavaro, di Hugo Campagnaro, del Mota Gargano. I muscoli di giovani vecchietti abituati a sgobbare sui campi di periferia e avvezzi anche ad errori ingenui, banalità marchiane frutto di un bagaglio di tecnica forse non sufficiente per questo palcoscenico. Poco importa, perché questi stessi “gregari” hanno imparato a sopperire a ciò che madre natura non ha loro donato, con una voglia ed un attaccamento alla causa esemplari. Proprio attraverso questa voglia stanno legittimando la loro presenza nell’elitè del calcio; sarà un evento estemporaneo, una condizione transitoria ma proprio per questo, tutto ciò, acquista valore e diventa degno di nota.
Ci perdonino i vari Lavezzi, i vari Cavani se per quest’oggi non ci concentriamo su di loro; siamo sicuri che ci saranno tanti titoli meritati e ben più prestigiosi per le loro gesta. Nulla da togliere alla doppietta del Pocho o alla rete e agli assist del Matador, ma il gesto tecnico di Aronica che in scivolata si prende beffa di un certo Drogba è il regalo più bello che la notte del San Paolo regala ad una tifoseria spesso vessata. Soggetta agli sfottò, ironici o meno, di tifoserie magari più fortunate e vincenti, ma sicuramente meno passionali. Napoli è strana. Città derisa e degradata, spesso abbandonata a sé stessa, ma comunque orgogliosa del suo essere. Il Napoli, come squadra, incarna in pieno questo suo orgoglio. Il calcio resta un gioco e il riscatto di una città non può nascere da 11 uomini che corrono dietro un pallone. Quando però quella stessa città si mette alle spalle della squadra e la spinge dimenticandosi dei suoi problemi, allora il legame diventa inscindibile e reale.
Per questo cantiamo per i tre tenori, ma non possiamo immedesimarci completamente; loro, i predestinati, questa Champions League la torneranno a giocare, con la nostra maglia (speriamo) o con qualche altra casacca. Vedere, invece, Aronica salvare un risultato o Cannavaro rialzarsi da uno scivolone che può ancora rivelarsi letale in vista della sfida di ritorno, questo sì che smuove le nostre corde. C’è chi vede Napoli e muore (vero André) e c’è chi vede Napoli e vive una seconda giovinezza; strani scherzi di Partenope.
Nulla è ancora stato fatto e si tratta ovviamente di una gioia effimera, ma l’orgoglio dopo l’ennesima serata indimenticabile difficilmente potrà essere cancellato. Anche qualora allo Stamford Bridge non dovessimo trovare l’America. Chiamateci umorali, ma per le critiche vi invitiamo a ripassare prossimamente. Del resto, da bravi napoletani, siamo sicuri che avremo ben presto modo e occasione di esprimerle.
(Massimiliano de Cesare)