In questa giornata che si concluderà con l’ennesima sfavillante notte degli Oscar, ricordiamo il film che cinquant’anni fa trionfò nella medesima notte vincendo sette statuette, tra cui le tre principali: miglior film, migliore regia e migliore sceneggiatura originale. Parliamo di La Stangata (The Sting) di George Roy Hill, uscito negli Usa il giorno di Natale del 1973 riscuotendo da subito un grande successo di pubblico. Molto conosciuto anche in Italia, dove in tempi successivi ha allietato un vasto bacino di pubblico, di ogni età, ceto e strato culturale, come diretta conseguenza dei suoi numerosissimi passaggi televisivi.



Ambientato negli Stati Uniti (costa est) degli anni Trenta, accompagnato da un tema musicale tra i più conosciuti della storia del cinema, La Stangata è un film basato su un intreccio semplice quanto accattivante, dove i ruoli di ogni personaggio risultano chiari per qualunque spettatore, dove non c’è nessuna particola tematica sottesa, ma solo il deciso incedere della vicenda verso il finale (non del tutto scontato, ma quasi), dove i meccanismi del racconto sono classici, oliati e precisi più di un orologio svizzero. Vale a dire, un buon esempio di puro intrattenimento hollywoodiano di alta qualità, con i due protagonisti mattatori (Paul Newman e Robert Redford) padroni assoluti del film come delle platee di spettatori e – soprattutto – spettatrici adoranti.



Già diretti nel 1969 dallo stesso George R. Hill nel western-commedia Butch Cassidy and the Sundance Kid, i due attori danno qui il meglio di sé, costituendo forse il principale ingrediente del planetario e duraturo successo del film. Riproporre la coppia dopo qualche anno è stata infatti la felice intuizione del regista: i due, dopo essere stati gli scanzonati fuorilegge di Butch Cassidy (storia romanzata di due personaggi realmente esistiti), con La Stangata diventano due truffatori nell’America appena uscita dalla Grande depressione, ambiziosi e scaltri quanto basta per organizzare un articolato e memorabile raggiro nei confronti di un potente boss della mala di Chicago. L’intreccio è articolato ma godibile, dovendo seguire le manovre per organizzare la falsa bisca dove inscenare la truffa al boss, mentre la vicenda si dipana tra alberghi fatiscenti e bar malfamati, con inevitabili fumosi retrobottega, non tralasciando anche qualche nota romantica.



Celebri anche le musiche del film, in particolare il tema principale, il brano ragtime The Entertainer di Scott Joplin, scritto nel 1902 e adattato per l’occasione da Marvin Hamlisch (uno degli Oscar di cui si diceva sopra). Curiosamente, il tema musicale risulta particolarmente adatto al visivo complessivo del film, nonostante il genere ragtime, all’epoca di ambientazione della storia (anni Trenta), fosse stato soppiantato da almeno un ventennio dallo swing. Curiosità non unica: sull’onda della popolarità de La Stangata, il ragtime ritornò in auge per qualche tempo alla metà degli anni Settanta, completamente fuori dalla sua epoca ma perfettamente dentro il meccanismo del ciclo del prodotto (artistico-culturale) nei circuiti mediatici della cosiddetta cultura sottile, cioè popolare: molti ricorderanno il brano pianistico Odeon Rag di Keith Emerson (anche sigla della trasmissione Rai-tv Odeon del 1978).

Allargando la prospettiva di analisi, inquadriamo La Stangata nel filone della New Hollywood degli anni Settanta, quella nata per rispondere alle nuove correnti europee degli anni Sessanta. Calderone nel quale troviamo cose anche molto diverse tra loro, accomunate però dalla necessità di snellire la catena produttiva e trovare modalità espressive più adatte alla rinnovata sensibilità del pubblico, ammaliato dal cinema riflessivo e soggettivo dei movimenti europei. I principali autori di questo rinnovamento rispondono alle nuove esigenze sostanzialmente in due modi diversi, ma in fondo complementari. In sintesi: da un lato troviamo gli autori che riprendono i generi classici del cinema americano rinnovandoli con sapienti tocchi delle novità linguistiche europee (Cassavetes, Scorsese, Cimino, Altman, Allen, Coppola i principali); mentre dall’altro lato emergono quegli autori (Spielberg e Lucas soprattutto) che ritornano alle storie semplici, giocate sugli archetipi classici ben delineati (bene vs. male, nelle sue infinite declinazioni) e di grande impatto spettacolare.

La Stangata precede storicamente di poco i blockbuster di produzione Spielberg o Lucas, ma occupa la stessa area concettuale, quella dell’intrattenimento di qualità e spettacolo fine a se stesso. Alla fine siamo nell’ambito della vecchia diatriba sulla natura del cinematografo: arte visiva terreno di espressività o forma di spettacolo popolare rivolto a tutti? Entrambe le cose, ci dice la sua storia. La quale anche ci suggerisce, specialmente nei suoi ultimi quarant’anni, che allo spettatore mediano (non necessariamente “popolano”) poco importano gli aspetti linguistici o artistici o tecnici, ma cerca nel cinema svago intelligente, emozioni da raccontare e ricordare, conforto affettivo, personaggi e interpreti da amare (oppure odiare), nei quali eventualmente specchiarsi.

Tutte istanze alte, meritevoli di attenzione da parte degli autori (il pubblico è sovrano, paga il biglietto quindi, a buon diritto, decreta trionfi o debacle), che non a caso si trovano a profusione in un buon vecchio film come La Stangata.

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