Quella della famiglia Robertson è una storia che ha – a dir poco – dell’incredibile, vissuta su 38 lunghi (lunghissimi) giorni trascorsi in mare aperto, senza un riparo dal sole o dalla pioggia, ma soprattutto senza cibo o acqua; il tutto dopo un violento naufragio che ha coinvolto la loro barca, attaccata da un branco di orche. Una storia raccontata lucidamente da Douglas – all’epoca 17enne, ultimo dei figli della famiglia americana – nel libro Survive the Savage Sea, ma anche in decine e decine di interviste rilasciate in questi lunghi anni, l’ultima pochissimi giorni fa sul Guardian inglese.
Per ripercorrere questa difficile (ed incredibile, lo ripetiamo) storia dobbiamo tornare al 1971 quando l’intera famiglia Robertson – composta all’epoca dai due genitori e da quattro figli – decise di abbandonare la routine quotidiana per intraprendere un lungo viaggio attorno al mondo: i primi 17 mesi trascorsero senza gradi difficoltà (tralasciando quelle che normalmente capitano in una barca lanciata in mezzo agli oceani) e dopo diverse tappe tra l’Inghilterra, il Portogallo, le Canarie e Miami decisero di dirigersi verso le Isole Marchesi.
Il naufragio della barca dei Robertson: “Attaccati dalle orche, pensavano fossimo una balena”
Quella scelta fu la più sbagliata che la famiglia Robertson avesse intrapreso fino a quel momento perché dopo appena 45 giorni di navigazione – racconta sempre Douglas al Guardian – si imbatterono in un comunissimo (e pericolosissimo) branco di orche: queste – pensando probabilmente che la loro imbarcazione da 13 metri fosse una balena – iniziarono ad attaccarli violentemente, lasciandogli appena un paio di minuti prima che barca colasse a picco nei fondali oceanici.
Douglas ricorda di essersi buttato in mare per aiutare suo padre, sua madre e i tre fratelli a salire su una piccola zattera che gli era stata donata all’inizio del loro viaggio: “Continuavo a cercare le [mie] gambe per vedere se le avevo ancora – ricorda il sopravvissuto della famiglia Robertson – perché avevo sentito dire che non si sente il morso [ma] si vede solo il sangue”. Tutto andò (per così dire) nel migliore dei modi, salvo il fatto che si trovarono nel mezzo dell’Oceano Pacifico, a centinaia di km da qualsiasi terra emersa, impossibilitati a remare “per 25 miglia al giorno per 10 giorni” e – soprattutto – con provviste solamente per una decina di giorni scarsi.
Com’è sopravvissuta la famiglia Robertson in mare aperto per 38 giorni: “Bevemmo il sangue delle tartarughe e ci nutrimmo di uno squalo”
Fu lì che la famiglia Robertson dovette imparare a cavarsela con le risorse che aveva a disposizione, stipulando un patto: “Non mangiamoci a vicenda“. Così, dopo un primo tentativo fallito di farsi notare da un’imbarcazione che passò a qualche miglia di distanza da loro decisero di rimanere nel mezzo dell’Oceano dove sarebbe stato più probabile incontrarne altre e ritrovare la (tanto agognata) libertà.
Passarono altri interminabili giorni e una volta finite le scorte dovettero – per l’ennesima volta – arrangiarsi il tutto mentre “la zattera peggiorava sempre di più, avevamo l’acqua fino alle ginocchia e piaghe su tutto il corpo”, con l’unico angolino asciutto contesto e spartito “per un’ora al giorno a testa”. Il figlio della famiglia Robertson ricorda di aver ucciso qualcosa come “13 tartarughe. Le legavamo, tagliavamo la loro giugulare e facevamo colare il loro sangue in una tazza per berlo” e mangiavano quello che restava della carcassa.
Una piccola (e potenzialmente tragica) svolta ci fu quando riuscirono a catturare uno squalo: “Era lungo due terzi del canotto”, gli infilarono “una pagaia in bocca” e gli tagliarono la testa; mentre per ricavarsi l’acqua dolce – oltre a bere le frequenti piogge oceaniche – la famiglia Robertson fu costretta a “succhiare i bulbi oculari e le vertebre” dei pesci catturati. L’incubo finì il 23 luglio 1972 quando una nave giapponese individuò il loro vascello (ormai quasi completamente distrutto) e li portò al sicuro: erano passati ben 38 giorni di incubo.