DENVER – Mi siedo al tavolo con un vecchio amico. Jim Blum è un uomo grande e un grande uomo. Ha passato vent’anni in prigione in Colorado e quando gli è stata inaspettatamente concessa la libertà vigilata, ha fondato My Father’s House (“La Casa di Mio Padre”), un’organizzazione non-profit che dalla sua fondazione nel 2017 ha accompagnato più di cinquanta uomini nel lungo processo di reintegrazione in società. Da una casa comprata indebitandosi personalmente a gestirne tre con quattro posti letto ciascuna (il nome dell’organizzazione è tratto dai versetti giovannei “vado a prepararvi un posto…”), Jim è cresciuto fino a diventare una presenza discreta e fidata, riconosciuta dallo stesso sistema carcerario del Colorado, che conta su di lui e realtà come la sua per affrontare un problema che in pochi hanno il coraggio, le risorse, e la forza morale di affrontare: l’accoglienza nella comunità civile di persone che hanno commesso un crimine.
Ho lavorato con Jim per un anno e mezzo attraverso un progetto di AVSI-USA, chiamato Restorative Freedom Initiative. Insieme abbiamo creato una partnership con le APAC brasiliane, modello di successo della giustizia riparativa, per imparare e adattare al contesto americano il loro metodo. Non siamo nuovi a lunghe conversazioni su zoom, ma questa volta vesto i panni dell’intervistatore e premo il tasto “registra”.
Ho riassunto brevemente la tua storia, Jim. L’ho sentita così tante volte dalla tua viva voce. Ci racconti come My Father House è cambiata in questi sei anni di esistenza?
MFH è iniziata con una sola casa e con me, unico volontario. Per cui all’inizio eravamo essenzialmente un’impresa for profit: firmavo un contratto di affitto con ciascuno degli uomini che uscivano di prigione, che dovevano essere in grado di pagare subito, altrimenti non potevo sostenere il mutuo. Negli anni siamo riusciti ad ottenere fondi che sono necessari per offrire agli uomini che accogliamo un po’ di respiro: ora possono venire a MFH e vivere per un mese o due senza doversi preoccupare di trovare i soldi. Questo ci ha permesso di raggiungere un gruppo più vasto di persone, non solo quelli con disponibilità economica immediata. Un altro modo in cui MFH è cambiata è che all’inizio non offrivamo nessun programma educativo. Io mi dicevo: non voglio essere la babysitter di queste persone, ma trovare uomini adulti che vogliono lasciarsi alle spalle il loro passato e farsi una nuova vita, e che hanno bisogno di qualche assistenza per farlo. Ero pronto a fornire assistenza, ma non volevo tenerli per mano ad ogni passo della strada. Ho scoperto che uomini così sono molto rari, e la maggioranza invece ha bisogno di essere accompagnato quotidianamente. È una lotta costante perché nella mia testa c’è sempre il pensiero che loro dovrebbero essere in grado di capire cosa fare. Perfino oggi sono in difficoltà con uno dei miei uomini che è a casa da mesi senza far niente: non sta cercando lavoro, passa la giornata guardando video, dovrò avere un dialogo con lui. Ma non so come fare. Quindi abbiamo iniziato a sviluppare dei programmi educativi, anche grazie all’aiuto di APAC in Brasile. E ho imparato che queste cose servono, sono necessarie.
Puoi spiegarci l’importanza di quel tempo di respiro che adesso riuscite ad offrire agli uomini che accogliete?
Quando io sono uscito di prigione, avevo tutto ciò di cui avevo bisogno: un luogo dove vivere, cibo da mangiare, vestiti da indossare, un mezzo di trasporto. E non c’era alcuna ansia per queste cose. Non dovevo pensare: “Se non trovo un lavoro questa settimana, mi sbatteranno per la strada”. Questo sembra niente, ma è tantissimo. Perché ti tira fuori dal semplice istinto di sopravvivenza e ti porta in un luogo in cui puoi fermarti a pensare e fare un piano per il futuro in cui stai entrando.
E come My Father’s House ha cambiato te, invece?
Mi piace pensare che sono un po’ più saggio e che ho imparato più di una lezione in termini di business e non profit. Ma riconosco anche che questo lavoro mi ha reso più disponibile a essere graziosamente paziente, misericordioso se vuoi, o a lasciare più spazio agli uomini che accolgo. Per un altro verso sono anche diventato più intollerante. Preferirei che uno mi sputasse in faccia piuttosto che mentirmi spudoratamente. Non mentirmi! Ma in genere le persone sono più contente di fare così: ti guardano negli occhi e ti mentono. E mi fa andare fuori di matto. Mi fa fare cose che rimpiango di aver fatto e dirne altre che rimpiango di aver detto.
Cosa intendi per graziosamente paziente?
Sono una persona piuttosto conservatrice per quanto riguarda il dipendere da altre persone per cose che possono darmi e che mi aiutino a vivere (soldi o altro). Ora accetto regali e donazioni dalla mia famiglia. Ho perfino accettato i food stamps quando sono uscito di prigione, una cosa che mi ero ripromesso di non fare mai. Quello che voglio dire è che ho perso migliaia di dollari che ho dato ai miei uomini in questi anni, uomini che semplicemente non ripagavano i loro debiti. Alla fine, ho deciso di smettere di chiedere. Questo non l’avrei mai fatto in passato.
E perché l’hai fatto?
In parte non vale lo sforzo. Gli potrei fare causa, ma non vale la pena in termini di tempo ed energia. In parte è anche perché so che non possono ripagarmi. C’è un uomo che ha vissuto con noi e mi deve 1.400 dollari e non ce li ha. Io continuo a chiederglieli di tanto in tanto e lui giura che me li ridarà, ma sono sicuro che non lo farà. Semplicemente non ha i soldi. Non li avrà mai. Quindi, sì, perdonare, essere pazienti.
Qual è la parte del tuo lavoro che ti dona la gioia più grande?
La cosa che amo di più fare è andare a prendere un uomo quando esce di prigione il primo giorno. È un momento molto frenetico per lui, che è spaventato a morte, ma è anche un nuovo inizio. Quando vado in queste prigioni, perfino ora dopo sette anni, ho ancora il sapore in gola di quell’esperienza, l’adrenalina corre nelle vene. Questi luoghi sono malvagi, e le cose che accadono lì dentro sono orribili. Io non voglio essere lì. Non voglio andare giù a Canon City (una città a un paio d’ore di macchina a sud di Denver, nda), entrare nel parcheggio della prigione. Ma quando lo incontro, e guidiamo fuori dal parcheggio, anche io sono liberato di nuovo, così come lui è libero. È come andare a riscattare uno schiavo o liberare un cristiano dai saraceni, o salvare qualcuno dai suoi rapitori. Con questo non voglio dire che questi uomini non si siano meritati di essere dove erano o che io non mi sia meritato di essere dove ero, perché ce lo siamo meritato tutti. Ma non ci meritiamo le cose che in quei luoghi sono successe. Quindi questa è una parte del mio lavoro che mi dà molta gioia. E poi, quando vedo i miei uomini crescere e fiorire: trovare un lavoro, passare un traguardo, comprare una macchina, o fare un progresso decisivo nella loro terapia, ristabilire un rapporto ferito con la loro famiglia. Qualunque piccolo passo positivo mi rende molto felice. Adoro vedere queste cose succedere, e questa è la parte migliore del mio lavoro.
Da quando ti conosco ho visto e incontrato una comunità nata dal tuo lavoro. Quanto è importante questo aspetto comunitario?
È importantissimo! Così tante persone nel mondo – non solo tra i carcerati – sono sole nel mezzo di una folla e percepiscono un grande senso di solitudine e isolamento. Credo che sia parte della condizione umana il voler percepire di essere connessi ad altri. E non sono neanche sicuro che sia possibile completamente in questo mondo. Ma circondare questi uomini con una comunità di amore e di supporto cambia completamente il gioco: cambia il modo in cui pensano a se stessi, la loro visione del mondo e i sogni che hanno, perché vedono che insieme sono possibili cose che non riuscirebbero mai a compiere da soli. Alcuni dei miei uomini non vedono questo e si rifiutano di partecipare alla comunità. È un peccato e mi rende triste.
Puoi fare qualche esempio dei cambiamenti che vedi?
David era un uomo che semplicemente odiava se stesso. Me lo diceva lui stesso: “Io mi odio”. Eppure, l’ho visto trovare una prospettiva di senso in questa comunità cristiana, lui un uomo che si professa pagano e che non perde occasione di ricordarlo a chi gli sta intorno. David adora parlare di politica e fare commenti provocatori. Il giorno del ringraziamento è entrato in casa e dopo neanche tre minuti stavano già parlando di politica. “David dev’essere arrivato”, ho pensato. Ma lui adora l’atmosfera che la comunità crea. Un altro dei miei uomini, Alfredo, si siede sempre in disparte quando ci troviamo insieme. Non si sente ancora parte del gruppo, un po’ per problemi di ansia e un po’ perché non si sente di appartenere. Si sente un estraneo. Di certo non è un estraneo per me, ma lui ha questo modo di pensare. Allora io lo chiamo e gli dico: “Vorrei che tu venissi qui e ti sedessi con noi”. Non lo fa una volta, non lo fa una seconda, ma poi cede. È ancora a disagio. Lo vedo benissimo. Ma la mia speranza è che piano piano abbassi le difese e si renda conto del valore. Molti dei miei uomini soffrono di mancanza di autostima, che si manifesta nell’essere difensivi, oppure ritirati, altre volte perfino aggressivi. Alfredo, per esempio, quando lava i piatti dopo una cena di gruppo non lascia entrare nessuno. Noi vogliamo aiutarlo, ma lui ci grida: “Tutti fuori! Pulisco io”.
Puoi dire in due frasi qual è la motivazione che ti spinge a fare quello che fai? So che è una domanda molto personale.
Vediamo, non so quanto voglio mostrarmi vulnerabile. Ho fatto un sacco di cose terribili nella mia vita e ho fatto del male a tante persone. Sto cercando di rendere il mondo un po’ migliore espiando per le cose che ho fatto. Direi così.
So che tu hai molti uomini nella tua lista d’attesa, e pensando alle cose che hai condiviso fino ad ora, soprattutto quelle che ti provocano maggiore frustrazione, quello che sei in grado di portare a termine può sembrare una goccia nell’oceano. Che cosa ti dà speranza?
Mi entusiasma stabilire nuovi rapporti con persone che sono interessate al lavoro che faccio e che vogliono aiutare in qualche modo. Mi dà speranza vedere che i miei uomini stanno bene e fanno progressi. Sto pensando a Sean, che si è da poco trasferito nel suo appartamento. Sta facendo progressi! Credo che stia andando un po’ troppo veloce, deve calmarsi un attimo, e abbiamo avuto una bellissima conversazione su questo l’altro giorno. Ma, sì, vedere gli uomini riuscire e fiorire mi dà speranza.
Perché i dialoghi con le persone che incontri ti danno speranza?
Perché vedo un gruppo di persone che vogliono fare del bene e spesso non sanno cosa fare. Incontro spesso persone che mi chiedono consiglio su come possono essere utili in questo mondo dell’apostolato e dell’aiuto in prigione e nel re-inserimento. Mi scalda il cuore vedere gente che pensa a questi problemi e vogliono fare qualcosa al riguardo.
Trovi che la gente che incontri sia per lo più ignorante dei problemi di chi passa tanto tempo in carcere e deve reinserirsi in società?
Sì, forse ignoranti, ma anche insensibili. C’è una certa incapacità a provare empatia a causa dei crimini che abbiamo commesso e un certo sentimento che queste persone hanno avuto quello che si meritavano. E questo è triste.
Perché?
Perché una persona è una persona. Ognuno compie cose cattive e se cominciamo a categorizzare la gente a partire dai peccati che commettono e le cose cattive che compiono, non rimane nessuno da amare, nessuno di cui prendersi cura. È un mondo molto squallido quello che rimane. Voglio dire che se l’unica cosa che vediamo sono i fallimenti, è un modo terribile di guardare al mondo.
Ma non è un ottimismo un po’ beota guardare a un ex-carcerato non per i suoi fallimenti?
Credo che dobbiamo essere realisti. Dobbiamo vedere tutt’e due le cose: i fallimenti insieme alle grazie e alle cose buone che hanno. Io non voglio evitare di guardare ai fallimenti ma voglio guardarli in contesto e dire: “Sì, quest’uomo ha commesso un crimine terribile, ma è anche in grado di fare il bene, ed è un figlio di Dio, ha un valore e una dignità che viene dal suo Creatore che non dipende dalle azioni buone o cattive che compie in un certo giorno”. Ma se guardi solo a ciò che le persone fanno e non a quello che sono, beh, è un mondo abbastanza brutto così.
Come stai vivendo questa stagione di Avvento?
Mi sono ripromesso di dire la liturgia delle ore attraverso la mia oblazione benedettina. Sono diventato un oblato di San Benedetto mentre ero in prigione e ho ripreso il mio impegno a seguire questa regola. Non è la prima volta che rinnovo la mia oblazione, ma spero che questa volta tenga! Sto andando a messa tutti i giorni e sto rileggendo la regola di San Benedetto. Penso che la saggezza di Benedetto si possa applicare in molti modi alla vita di My Father’s House. Magari riscriverò completamente la nostra Way of Living basandola sulla sua regola.
Che messaggio porta il Natale al lavoro di My Father’s House?
Natale significa portare una vita nuova nel mondo, e significa ricominciare di nuovo. Si tratta di accogliere la vita di Cristo nelle nostre vite un’altra volta e in modo nuovo ogni anno. Riconoscere la presenza di Cristo oggi, che Lui è con me oggi. Il Natale è anche fare spazio per altre persone nelle nostre vite. Il mondo non è che proprio volesse che Dio venisse e lo salvasse dal peccato, perché si stava divertendo. Eppure, ecco che arriva Dio che ci dice: “Sono venuto a risolvere questo problema per te”. E per la maggior parte, il mondo ha risposto: “Risolvere che cosa? Non abbiamo nessun problema. Qui va tutto bene”. Ma dobbiamo riconoscere che abbiamo un problema. Il Natale mi ricorda di questo nella mia vita. Questo è quello che succede a My Father’s House: è un risvegliarsi e un diventare consapevoli del nostro bisogno di Dio, della sua grazia e della sua redenzione. Non tutti i miei uomini lo capiscono o sono interessati, perché anche loro in un certo senso si stanno divertendo troppo. Ma devono, prima o poi. E quindi Cristo arriva e bussa alla porta e chiede di essere lasciato entrare. E se non lo lasci entrare, bussa ancora, e ancora, e ancora. E se non sei prudente, può perfino mandarti in prigione per ottenere la tua attenzione. Alla fine, la tua attenzione se la prende. Poi sta a te rispondere o meno. Sono molto fortunato e molto felice che Lui abbia catturato la mia attenzione e che mi abbia condotto a scegliere di aprire il mio cuore a Lui. Spero che anche i miei uomini prima o poi vedano questo.
Quindi anche tu continui a bussare?
Sì, certo.
Come festeggi il Natale?
Alla vigilia passerò un po’ di tempo con la mia famiglia, da mia sorella. Ci sarà un bel gruppo, quasi venti persone. E poi il giorno di Natale inviterò tutti i miei uomini a casa mia e preparerò prime rib (la costata di manzo, nda). Non so ancora che cos’altro. È bellissimo vedere gli uomini che stanno festeggiando il loro primo Natale fuori le sbarre: preparo loro il prime rib e la maggior parte di loro non l’ha mai mangiato. Allora gli dico: a Natale, mangiamo la costata di manzo. E loro mi rispondono: “Ok. Che cos’è?”. E poi quando glielo metto davanti e cominciano a mangiarlo, mi dicono: “Questa è la carne più buona che abbia mai mangiato!” E io gli dico che è per questo che si chiamano prime rib (prime significa di prima scelta, nda). È il taglio di carne migliore. Sono tutti contenti e vogliono portarsi gli avanzi a casa. Quello che non sanno è che il prime rib non è molto buono il giorno dopo.
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