Da vari anni il lavoro parlamentare discute del diritto a ottenere una legge che consenta di scegliere il modo e il momento più opportuno per morire. La legge sull’eutanasia, anche in virtù di una sorta di accanimento mediatico, ritorna progressivamente in pole position in una sorta di mistificazione progressiva, per cui chi difende il diritto alla vita, a una migliore qualità di vita, è destinato a scivolare sempre un passo indietro rispetto a chi sostiene le sue ragioni rispetto al diritto a una morte on demand. Non è inutile sottolineare come spesso in queste storie ci sia dolore e sofferenza, paura della solitudine e dell’abbandono, ma il tutto passa inesorabilmente in secondo piano rispetto al diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria morte. Sono casi drammatici che meritano tutto il nostro rispetto, anche se personalmente preferisco sostenere le ragioni di chi vuole vivere. Soprattutto quando chi vuole vivere ha una storia complessa, in cui i confini tra la vita e la morte sono davvero sottili e sono rappresentati dalle cure palliative pediatriche.
La storia di Elena ha un epilogo che a un primo sguardo sembra decisamente triste. Si tratta di una bambina sarda di 12 anni a cui viene diagnosticato un sarcoma di Ewing, quando di anni ne ha solo 6, ed è piena di voglia di vivere, di giocare e soprattutto di ballare. I genitori cercano per lei le migliori soluzioni possibili e si muovono tra Firenze, luogo della prima diagnosi, e Padova, luogo dei trattamenti successivi. Il papà di Elena muore, secondo la mamma sopraffatto dal dolore e dalla impossibilità di accompagnare la figlia alla guarigione. Ma Elena, tra un episodio e l’altro della malattia, nonostante la perdita del papà, riesce a tornare sempre a casa, in Sardegna; riprende la scuola, mantiene i rapporti con le sue compagne e continua a seguire la danza in Tv.
La malattia progredisce e le metastasi si moltiplicano, fino a quando, secondo i medici, diventa necessario ricorrere alle cure palliative. Ma in Sardegna le cure palliative pediatriche non ci sono e questo è un nuovo shock per la piccola e per sua madre. Elena è costretta ad abbandonare il suo splendido habitat naturale, fatto di luci, di sapori, di mare, ma anche e soprattutto di amiche, di gente che le vuole bene, che conosce l’allegria del suo carattere e la sua generosità. Sono persone che sanno stare con lei in una relazione positiva, rendendo bella la sua vita, anche in una fase decisamente difficile da accettare e da vivere.
Non a caso Elena durante la sua malattia scrive un libro: La magia degli amici, che incontra un grande successo a tal punto che il suo maestro glielo fa rilegare con una copertina del suo colore preferito, il verde. Ma ad Elena è precluso il diritto a farsi curare dove e come vorrebbe, quel diritto di rango costituzionale per cui la bambina avrebbe diritto a tutte le cure necessarie, gratuitamente. Un diritto che si scontra con un criterio di realtà. In Sardegna le cure palliative pediatriche non ci sono. Il suo diritto è inesigibile, nonostante ci sia una legge, la 38/2010, che da ben 15 anni sostiene la necessità e l’urgenza di mettere a disposizione di tutti i pazienti, anche i più piccoli, la rete delle cure palliative. Dice la mamma di Elena: “La medicina permette ai bambini di vivere più a lungo, ma non garantisce a questi giorni in più la giusta qualità di vita”.
Elena è mancata l’11 novembre, e ha vissuto il suo ultimo Halloween in ospedale, chiedendo al fratello di comprare le caramelle per tutti i bambini del reparto: voleva che ognuno di loro l’indomani avesse il famoso sacchetto ricolmo di dolciumi. Era il suo diritto a vivere e a far vivere i suoi amici, i suoi coetanei che erano lì con lei in reparto, nel miglior modo possibile. Elena è morta, ma non voleva morire, voleva continuare a vivere e a ricevere le cure palliative di cui tanto aveva bisogno, restando a casa, nel suo piccolo mondo di felicità. Ma non è stato possibile: eppure la legge c’è da tanto tempo, le risorse del SSN destinate alle cure palliative sembrano crescere, ma Elena per riceverle ha dovuto andar via, come una piccola migrante accompagnata dalla sua mamma.
Eppure nessuno grida allo scandalo per il suo diritto, almeno in parte, ignorato e sottostimato. Elena ha affrontato un’operazione, con innesto di tibia. Ha avuto una recidiva nell’osso della nuca, che l’ha obbligata a fare la radioterapia a Padova, perché era troppo piccola per la strumentazione disponibile a Cagliari. Se ci fosse stata una rete di cure palliative strutturata in Sardegna, la bambina avrebbe potuto trascorrere a casa gli ultimi mesi di vita, con un’assistenza domiciliare adeguata, grazie a un hospice che dopo aver inquadrato la situazione avrebbe lavorato al fine di garantirle le cure a casa.
Eppure l’OMS definisce le cure palliative pediatriche come l’attiva presa in carico globale di corpo, mente e spirito del bambino e include il supporto attivo alla famiglia. L’obiettivo è migliorare la qualità della vita del bambino e della sua famiglia, per cui sottolinea come il domicilio rappresenti, nella stragrande maggioranza dei casi, il luogo ideale di assistenza e cura. L’analisi delle esperienze esistenti a livello internazionale e nazionale, e le evidenze desunte dagli studi della letteratura, fanno ritenere indispensabile organizzare le cure palliative pediatriche secondo modelli di rete che comprendano al loro interno risposte residenziali e domiciliari, in grado di integrarsi e di modularsi in momenti diversi del decorso del paziente, privilegiando a seconda delle condizioni e delle situazioni specifiche ora l’una forma ora l’altra.
Abbiamo bisogno di potenziare la rete delle cure palliative per bambini e per adulti, per questo abbiamo una legge chiara e forte, che chiede solo di essere applicata, anche in chiave preventiva rispetto ad improprie richieste di eutanasia.
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