Un’ambulanza è stata imbarcata al porto di Genova nei giorni scorsi, destinata al Senegal. È un dono per la comunità di Niomré. Un’iniziativa di beneficenza come tante altre, sicuramente lodevole, rispondente a un reale bisogno in contesti dove è particolarmente difficoltoso raggiungere con urgenza un ospedale. Ma la notizia suscita uno speciale interesse per la storia che ci sta dietro e che vede come protagonista Ibrahima Dieng, immigrato senegalese, approdato in Italia vent’anni fa.



“Sono arrivato in Italia nel 2001, avevo 23 anni, ero partito con l’idea di aiutare la mia famiglia, il mio paese. Non avrei voluto abbandonare la mia terra, ma sono stato spinto vedendo altri che avevano trovato lavoro in Europa o in America e riuscivano a sostenere le famiglie in Senegal”. Il suo viaggio della speranza è stato segnato da rischi e problemi ben noti, da sempre documentati nelle cronache: tanti sacrifici per raggranellare i soldi per affrontare l’impresa “sostenuta anche da uno zio che si è fatto pignorare l’auto per contribuire” e poi, una volta approdato in Italia, una vita da clandestino, al limite della sopravvivenza. “Io non mi sono rivolto a nessuna organizzazione che procura documenti, il primo periodo è stato durissimo. Ho cominciato a fare l’ambulante a Pisa vendendo accendini, fazzoletti, calzini, non capivo una parola e non riuscivo nemmeno a contare i soldi… guadagnavo poco o niente”, dice ricordando quel periodo. “In certi momenti piangevo e volevo tornare a casa”. E invece… “Dopo un po’ ho cominciato a farmi una clientela, mi volevano tutti bene, c’erano persone che tutti i giorni compravano qualcosa. Ho incontrato gente buona che mi ha aiutato” racconta tornando all’ispirazione originaria, al legame con il suo paese e la sua famiglia, ai ricordi dell’infanzia.



Quel mondo Ibrahima se lo porta nel cuore come una ricchezza ricevuta che continua ad alimentare la sua speranza: chi lo avvicina si accorge della sua fiducia, della voglia di rendersi utile, dell’amicizia che riconosce e che cerca sempre di ricambiare. “Ho incontrato persone speciali” dice parlando della famiglia che lo ha aiutato a uscire dalla precarietà. “Ibra, tu sei un bravo ragazzo, veramente bravo. Ma chi non ha un lavoro regolare sarà espulso… Poi senza uno stipendio fisso non potrai mai chiedere un mutuo”: così gli aveva detto il titolare dello storico negozio di biciclette di Pisa dove dopo qualche tempo Ibrahima venne assunto. “In realtà non stava cercando nessun lavoratore per la sua attività, ma pur di aiutarmi mi ha fatto un contratto per mezza giornata. Io non stavo fermo un attimo, lavavo il pavimento, le finestre, cercavo di imparare il mestiere… per farla breve, ancora oggi, dopo 18 anni, lavoro lì a tempo pieno”.



Il suo racconto scorre fra innumerevoli incontri che si trasformano in amicizie, occasioni di aiuto ricevuto o da lui espresso nei confronti di altri: “Sono cresciuto con l’idea che ogni persona quando viene al mondo non ha nulla, può solo ricevere quello di cui ha bisogno. Io sono stato fortunato, ma non sono meglio di altri… Tutte le volte che mi sono trovato in difficoltà anche per problemi economici, la prima persona che ho contattato mi ha subito aiutato”. Davvero? E come lo spieghi? “Sono le mie preghiere. Io prego, ho fiducia. E prego anche perché chi mi incontra e ha un bisogno possa trovare in me la stessa disponibilità immediata. So che chiedere non è bello, ma se sei al limite, se non sai come risolvere un problema speri solo in un amico che ti viene incontro”.

“Sono fortunato” ribadisce Ibrahima parlando della sua tradizione, di quello che ha imparato dalla sua famiglia, dai nonni, dagli anziani che al suo paese trasmettono ai giovani i loro valori. “Non ho scelto io dove nascere, anche la religione non l’ho scelta, sono musulmano e prego lo stesso Dio che preghi tu”.

Racconta di sé e della sua vicenda per far comprendere l’origine di tante attività intraprese, di un impegno che lo vede in prima linea su tanti versanti. Vicepresidente della Comunità senegalese e vice dell’Unità migranti di Pisa, è coinvolto anche nell’esperienza del Banco Farmaceutico che organizza la raccolta di medicinali inutilizzati, ma perfettamente integri, da distribuire ai disagiati. Proprio un responsabile del Banco di Lucca, Roberto Aiello, si è attivato per realizzare il sogno di Ibrahima: suo figlio lavora a Milano per l’InterSos fratelli Introini e il titolare ha donato l’ambulanza da destinare al Senegal.

“Mia mamma quando ero bambino mi aveva raccontato di aver assistito al parto di una donna su un autobus. L’ospedale era distante e non aveva fatto in tempo a raggiungerlo” ricorda Ibrahima Dieng sottolineando una conoscenza diretta delle necessità del suo paese. L’ambulanza partita dall’Italia è stata attrezzata anche di un’incubatrice procurata dall’ospedale di Livorno, da sette barelle e 102 confezioni di farmaci inviati dal Centro missionario medicinali di Firenze.

Una catena di solidarietà si è consolidata in una storia di amicizia: “Sono grato per tanti incontri e possibilità che continuano a succedermi… mi sono iscritto a una scuola superiore e vorrei andare all’università” dice l’immigrato, che non ricorre alla parola “integrazione” per definire il fenomeno che nel suo caso si è tradotto in vita reale. Preferisce riepilogare con evidente soddisfazione il suo percorso: “Sono cittadino italiano dal 2017, alle ultime elezioni a Pisa mi ero candidato, con il mio lavoro pago il mutuo per la casa e sono riuscito anche ad aiutare la mia gente. Ho comprato quattro ettari di terra in Senegal dove ho realizzato una fattoria, un pozzo profondo 50 metri, una pompa d’acqua, pannelli solari, 400 alberi di limoni. Ci vivono quattro famiglie”. Difficile interromperlo quando racconta i suoi progetti che con il desiderio vorrebbe immaginare “non solo per il Senegal, ma per tutta l’Africa”.

“Sono diventato ‘missionario’, tanti mi regalano cose necessarie, farmaci, computer o altro da spedire e ogni volta faccio un video che invio per documentare che tutto è arrivato a destinazione” tiene a far sapere confermando che la sua avventura genera un continuo coinvolgimento e promette nel tempo di migliorare alcune situazioni. “Credo che l’immigrazione non possa essere solo un abbandono della propria terra, una fuga, ma sia la possibilità di trovare risorse per creare lavoro e sviluppo nel proprio paese. Il mio sogno più grande è tornare a casa per sempre”.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI