“Tra noi e loro non si capisce chi è noi e chi è loro”. Con queste parole un ospite di una comunità psichiatrica ha risposto a un cronista che voleva un commento sul percorso di cura che sta svolgendo con educatori e medici.

Questa osservazione mi accompagna come l’evidenza di una verità intuita: siamo costituiti dalla stessa domanda e ci adoperiamo come possiamo per lo stesso scopo.



A un paziente non basta essere una malattia, vuole essere un uomo, magari con un malanno inevitabile, ma non da esso imprigionato; e così un lavoratore non è la sua mansione, è una persona che lavora con i suoi compiti, la sua creativa professionalità e le sue condizioni.

Analogamente vivere questo tempo come il tempo del Covid-19 ci va stretto: stiamo vivendo un tempo in cui c’è una grave situazione epidemica che mette a nudo i desideri e le paure di sempre.



Nei giorni in cui la pandemia è esplosa abbiamo preso tutte le misure possibili a tutela della salute: chiusure, procedure, presidi (introvabili) e formazione; ma ci siamo anche messi a produrre nel laboratorio strumenti di protezione del volto, guidati dalla Protezione civile brianzola che aveva la capacità, ma non il posto in cui operare. In sei settimane abbiamo distribuito gratuitamente 150mila presidi ai carabinieri, alle carceri, alla guardia di finanza, alle suore e ai vigili urbani: è venuto un senatore a vedere se era vero e, commosso, ha fatto una donazione di tasca propria per comprare una parte del materiale (nello specifico, elastico da mutanda per tenere la maschera al volto).



Non siamo fatti per scansare il pericolo, siamo fatti per vivere scansando pericoli di ogni genere, se possibile aiutandoci a vicenda. Molti dei nostri ospiti hanno sperimentato nella vita cose forse peggiori che infettarsi e questo li ha resi imprevedibilmente più comprensivi delle precauzioni imposte.

Nel volgere di poche settimane siamo passati dalla pretesa di morire a piacimento alla più naturale mendicanza di scampare il pericolo di morte; dall’indicare come crudele chi impedisce il suicidio all’additare, assai più umanamente, come eroe chi ti intuba in una rimediata terapia intensiva.

Vivere, ecco il desiderio ultimo che ci accomuna tutti, in maniera sottintesa quando siamo sani e opulenti, e più duramente quando siamo malati. Qui la malattia dei nostri 130 ospiti è nella psiche, non di rado accompagnata dalle conseguenze giudiziarie che ha generato, eppure sotto la coltre del dolore e dentro un cammino irrinunciabile di giustizia, ci sembra che nessuno sia ultimamente definito, anche se segnato, dalla sua pur grave condizione contingente.

Abbiamo visto operatori, educatori, infermieri, amministratori, addetti alle pulizie, medici e pazienti capaci di interpretare circostanze inimmaginate e procedure per loro natura da piegare alla realtà. Un impeto, non certo sorto per decreto, che ha commosso solo a vederlo al di là degli esiti che possono essere comunque dolorosi o sorprendentemente, come da noi, efficaci. E’ un merito? Sì, certo, ma è ancor più una grazia.

Con questo audace timor di Dio abbiamo chiesto al Vescovo di venirci a trovare e, imprevedibilmente, oggi S.E. monsignor Mario Delpini arriva a incontrare pazienti e operatori per dialogare, pregare e ringraziare di quel che c’è, che è sempre di più di quel che manca.

Eccellenza, ci benedica tutti!

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