Il mio nome è Marigona, ho 29 anni, sono nata in Kossovo e vivo con mio marito e mia figlia in provincia di Ravenna. Sono educatrice e pedagogista e attualmente sono insegnante nelle scuole a seconda delle supplenze.

All’età di cinque anni sono stata adottata da una famiglia italiana. Fin da piccola mi son trovata addosso un desiderio grande di felicità e di bellezza. Ma cos’è la felicità? Credevo che la felicità a cui il mio cuore è sempre stato teso, fosse il non soffrire. All’età di 12 anni ho dovuto fare i conti con ciò che davvero è la vita, cioè anche strappo e dolore. Per me è stato attraverso la morte di mio padre per un tumore, che mi ha spalancato una ferita e un vuoto tale che mi ha distrutto improvvisamente l’ideale di felicità che mi ero costruita.



Mi sono sentita in un certo senso tradita dalla vita stessa. Proprio per quel desiderio di felicità che comunque urgeva dentro di me, ma nella presunzione di trovarne la risposta a modo mio evitando la fatica, ho scelto la scappatoia fatta di sballi che per quanto sapevo fosse sbagliata, era il mio modo di ricercare quella pace che durava qualche ora per poi ritornare nel vuoto che mi divorava.



Avevo chi mi voleva bene e cercava di aiutarmi, ma era più forte la mia presunzione di farmi da me. Ero schiava dell’ideale di perfezione che mi ero costruita, per cui credevo di valere in base a quante capacità avevo e potevo dimostrare, dovevo essere perfetta in tutto e questo auto-giudizio che mi infliggevo mi portò a non riconoscermi più, a non riuscire a dire: io sono Marigona.

Un’ imprevisto è stata la salvezza. Ricordo bene quando il 15 maggio 2007 presi un treno senza avere una meta, mi ci addormentai sopra, non mi interessava dove andare, l’importante era scappare. Ed ecco che al mio risveglio mi trovai al capolinea della stazione: Pesaro. Ci furono tutte le varie procedure in questura e grazie anche al consenso di mia mamma, varcai la soglia dell’Imprevisto!



Un incontro, uno sguardo, un abbraccio, un Bene che più mi invadeva, meno mi permetteva di stare nella solitudine che mi era così comoda. Un abbraccio verso il quale a lungo andare era più difficile dire di no, opporre le mie resistenze, piuttosto che cedere davanti a una tale corrispondenza che il mio cuore ha sempre desiderato anche nel dolore e nella sofferenza.

Ogni volta era più evidente che ero sempre e comunque ri-voluta. Anche in comunità facevo fatica ad accettare qualcuno che mi richiamasse, perché non sentivo di meritarmelo. Io che mi definivo solo per il mio passato, io che volevo cambiare ciò che sono e che non avevo costruito con le mie mani. Ma il mio cuore sapeva bene ciò che desiderava: cercava qualcuno che avesse le chiavi per aprire la gabbia che mi ero costruita da me! Nel quotidiano ho riscoperto di più me stessa attraverso lo sguardo di bene che c’era. Seguendo proprio quel bene che mi ha invasa attraverso quei volti, il mio sguardo ha incominciato ad alzarsi da terra scoprendo, così, un grande panorama. Perché tutto questo potesse accadermi, lo sguardo di mia mamma non era mai venuto meno. Lei c’è sempre stata, ancora più quando ero in comunità. L’avermi affidata nelle mani di un altro, nella consapevolezza che il mio destino non potesse dipendere dalle sole sue mani, è stato l’abbraccio più grande che io possa aver ricevuto.

Verso la fine del percorso in comunità, mi sentivo inquieta per la domanda che sorgeva dentro me: “Tutto questo, dopo, per me ci sarà o finirà col mio percorso in comunità? Esiste un per sempre?”. Silvio, responsabile di Imprevisto, mi rispose: “Se ti fermi a guardare me, finirà tutto, ma se guardi dove guardo io vedrai cose grandi”. Non capivo, e non si trattava di capire subito cosa significasse, ma guardare che chi me lo diceva era davvero una persona felice e grata alla vita, non restava che seguire, guardare per verificare che era possibile anche per me, indipendentemente dalla circostanza o luogo in cui potessi nel futuro trovarmi. Tutte le scelte successive sono dipese da questa domanda grande che mi ha accompagnato in questi anni.

Ho terminato il percorso in comunità da tanti anni e nel frattempo mi sono laureata a Bologna in Scienze dell’educazione e successivamente in Pedagogia. Mi sono sposata con mio marito conosciuto all’università a Bologna e abbiamo una figlia di tre anni. In questo periodo storico di pandemia e tante incertezze la mia domanda diventa grande: è possibile anche oggi la Speranza? È possibile per me come lo è stato nella mia storia, riscoprire che davvero tutto è per un bene anche oggi?

A gennaio perdiamo un bambino a causa di un aborto spontaneo. Mi ricordo la telefonata che feci a Silvio Cattarina e la sua risposta ferma e decisa: “C’è una promessa che tutto è per un bene”. Mi sono commossa, non capivo… perché mi è evidente che non basta aver fatto esperienza nel passato, occorre che riaccada oggi. Un mese dopo mia mamma si ammala di Covid, finisce per più di un mese in terapia intensiva fino a che è morta il giorno del suo compleanno: è stato evidente anche qui un grande abbraccio, una testimonianza nella sua malattia, che non c’è sofferenza inutile se condivisa e gridata verso l’alto.

Seppure in tempi di Covid non erano possibili occasioni di incontro con persone, ho sentito una grande compagnia intorno a noi. In quei mesi degli amici del gruppo di scuola di comunità mi girano un video di Nicola Zattoni, un ragazzo riminese malato di Sla che ha vissuto la sua vita e la fede in modo invidiabile e che da poco tempo è morto. Lo guardo e rimango colpita perché anche io voglio vivere così. Ci penso e ripenso… e dopo due giorni gli scrivo e gli chiedo di esserci anche io nel momento che ogni sera fa con tanti amici via zoom. Capisco che non basta rimanere colpiti, devo seguirlo; per vivere così diventa necessario seguirlo. Per scoprire quale è il suo “segreto”, dovevo guardare dove guarda lui, come è stato con Silvio all’Imprevisto, anni fa. E così tutte le sere mi collegavo con mio marito a quei dieci minuti che mi hanno cambiato lo sguardo; farlo non elimina la sofferenza e la mia realtà quotidiana che nessuno poteva togliermi, ma mi ha permesso dentro la mia realtà di riscoprire ogni giorno nei piccoli fatti che c’è una speranza per cui nessun limite e dolore è l’ultima parola.

Ogni giorno è una battaglia nella gratitudine alla vita per avermi dato tanto, perché nell’aver tolto mi ha donato la strada che rende possibile poter dire che tutto, ma proprio tutto della mia storia non la cambierei, perché ha reso possibile scoprire che è possibile anche ora, anche nelle circostanze più dure, scorgere una bellezza che ha il sapore di eternità.

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