Se negli ultimi 10-20 anni non fossero nate strutture private, dal basso, in piena attuazione del concetto di sussidiarietà (naturalmente convenzionate con gli enti sanitari regionali) che si sono prese cure di chi soffre per disturbi psichiatrici e mentali, oggi li ritroveremmo in gran parte nelle nostre strade come clochard. O, peggio, come spesso raccontano le cronache, autori o vittime di gesti efferati: “figlio affetto da disturbi mentali uccide il padre e la madre”; “figlio con problemi psichiatrici ucciso dal padre che non ce la faceva più a tenerlo in casa”. Perché la legge Basaglia, che l’anno scorso ha compiuto 40 anni, ha chiuso sì i manicomi, dove questi malati erano abbandonati in uno stato vergognoso, ma non ha dato loro strutture alternative, lasciandoli a se stessi o ai familiari. Lo stesso Basaglia, come ricorda in questa intervista Alessandro Pirola, presidente e Direttore generale di As.Fra. – Fondazione Onlus Adele Bonolis (struttura esistente da circa 60 anni a Vedano al Lambro, provincia di Monza e Brianza), sosteneva che la sua operazione sarebbe riuscita solo quando un paziente avrebbe potuto tornare a svolgere attività normali: “E noi, partecipando alla giornata del Banco Farmaceutico, lo abbiamo fatto: è stata una esperienza entusiasmante, di successo, di bellezza, di letizia”.
La struttura, anzi meglio la “casa” – come amava definirla la fondatrice, la Serva di Dio Adele Bonolis (“Non si tratta di istituto, ma di CASA, sia per la struttura, sia per la regola, la norma, sia per l’atmosfera”) – da cui sono usciti pazienti e operatori per fare “la raccolta” nelle farmacie, offre programmi terapeutico-riabilitativi in forme diverse: residenziale, in due Comunità protette ad alta intensità e due Comunità riabilitative ad alta intensità; semiresidenziale in un Centro diurno di residenzialità assistita in sette appartamenti protetti, specializzata in accoglienza di persone dimesse dalle carceri e dai manicomi giudiziari. Persone a cui viene offerta, appunto, una casa, la possibilità di lavorare, di reimparare una socialità, di essere accolta, di seguire corsi di formazione, altrimenti sarebbero abbandonate per le strade di Milano o Monza. E quest’anno la Fondazione Bonolis ha preso parte a una nuova iniziativa, dando il sostegno alla giornata del Banco Farmaceutico, che da anni raccoglie farmaci da banco offerti dai clienti delle farmacie, svolgendo un servizio di carità utilissimo, visto che sempre più persone in Italia non possono permettersi di acquistare neanche delle aspirine.
Come siete stati coinvolti nella Giornata del Banco Farmaceutico?
Da quattro anni siamo stati riconosciuti come ente che ha diritto a farmaci da banco per i nostri ospiti e pazienti, che molto spesso non sono nelle condizioni di acquistarli. Abbiamo 80 pazienti psichiatrici nella fase post acuta di età tra i 20 e i 65 anni, a ciclo continuo, e una cinquantina che ruotano intorno al Centro diurno. Nel 30% dei casi hanno commesso reati o si sono trovati in misure pre cautelari o in misura alternative alla detenzione, un impegno davvero notevole.
Quindi siete una struttura ben nota al Banco Farmaceutico?
Sì, e alcuni mesi fa sono venuti a farci visita chiedendoci se accettavamo di diventare beneficiari di quanto raccoglievano nelle farmacie. Sono rimasti estremamente colpiti da quanto hanno visto qui, e così ci hanno assegnato tre farmacie. Noi abbiamo detto che saremmo andati di persona, così i nostri ospiti si sono implicati e adesso stanno scrivendo le loro esperienze per renderle pubbliche.
Che esperienza è stata vissuta?
Si è giocato tutto all’interno di una libertà e di una esperienza di bellezza. Abbiamo proposto ad alcuni dei nostri ospiti e dei nostri operatori di aderire a quanto il Banco farmaceutico ci aveva chiesto. La piacevole sorpresa sono stati 5 operatori che hanno detto sì e coinvolto nove ospiti: sono andati a fare un turno insieme al proprio educatore, coprendo tre turni in sei farmacie della Brianza.
I pazienti come si sono comportati?
Erano nove pazienti psichiatrici gravi, alcuni con una storia giudiziaria alle spalle. Si sono presentati in coppie, più un educatore: tutti in farmacia a chiedere un gesto di carità.
E i clienti come hanno reagito?
Benissimo. All’inizio i farmacisti ci guardavano straniti, poi non volevano lasciarci più andar via, abbiamo fatto foto, abbiamo raccolto farmaci. Alla gente che chiedeva informazioni spiegavano che l’offerta di quei farmaci avrebbe aiutato molte persone, e subito aggiungevano: i beneficiari siamo noi! Questo ha generato stupore, entusiasmo, gratitudine. Anche gli operatori che avevano sentito parlare di questa cosa hanno vissuto un contraccolpo che li ha catapultati dal mondo dei beneficiari a quello degli imprenditori.
E’ la dimostrazione che quando chi ha bisogno non viene lasciato solo, ma coinvolto in esperienze concrete, è in grado di agire e di aiutare se stesso e il prossimo?
Un atto di normale umanità è stata una esperienza di successo, di bellezza, di letizia. Là dove riesci a offrire e a ingaggiare una relazione, una implicazione, una compagnia, nasce una possibilità di riabilitazione dell’umano tra gli ospiti e tra chi ci lavora.
(Paolo Vites)