Al Meeting di Rimini mi hanno chiesto di intervenire in un incontro sull’esperienza di accompagnare i malati col titolo “Il ‘noi’ dentro l’io’”. Uno dei relatori, un medico molto in vista a Montreal di nome Patrick Vinay, ha posto questa domanda provocatoria: “Tanti che, nell’isolamento, muoiono di Covid, muoiono realmente di Covid, o forse per la mancanza di significato?”.



Guardando alla mia esperienza come cappellano per una fondazione che si prende cura delle persone gravemente malate, ho vissuto l’esperienza continua di come la possibilità di scoprire un significato – o meglio, il significato della propria vita – passi attraverso una compagnia, un essere accompagnati. E negli ultimi tempi legati alla pandemia ho anche visto come l’isolamento imposto dalle regole anti-Covid ha esasperato, di molto, la questione dell’isolamento dei malati. Ci tengo a precisare che non scrivo queste parole per denunciare niente e nessuno, ma vorrei rendere il più chiaro possibile quanto sia grave una decisione, quella di limitare drasticamente l’accesso alle persone malate. Fra le varie persone che mi passano per la mente, vorrei spendere una parola per un malato di Aids che conoscevo da anni, che chiamerò Paolo, ma non è il suo vero nome.



Dopo un’esperienza di tossicodipendenza e successivamente di malattia, Paolo è entrato in una comunità di malati di Aids, le cui condizioni non permettono una vita autonoma. Dopo parecchi anni in comunità, durante i quali ho potuto conoscerlo da vicino, Paolo è riuscito a uscire dalla comunità per andare ad abitare con una sorella la cui casa era vicino alla stessa comunità. Tutti i giorni Paolo veniva nella comunità per giocare a carte e mangiare insieme ai suoi compagni. Con l’arrivo della pandemia gli è stato impedito questo accesso e, non avendo più l’accompagnamento che l’aveva sorretto in quegli anni, le fragilità di Paolo hanno avuto il sopravvento, fino alla sua morte per overdose. Non è un caso isolato. Non sentendosi più accompagnato, Paolo ha perso di vista il significato che l’aveva tenuto in vita per anni.



Ho potuto sperimentare moltissime volte che il significato di cui parlava il dottor Vinay arriva e diventa forza di vita nelle persone attraverso una compagnia. La compagnia non è il significato, ma è lo strumento privilegiato che permette alla persona di aprirsi, liberandola dalla prigione dell’angoscia e della paura per incontrare qualcosa di dinamico e vivo, capace di rendere la strada dolorosa un cammino che umanamente valga la pena.

Vorrei poter chiarire meglio che cosa intendo con la parola “compagnia”. Fare compagnia non è solo una questione di venire vicino a una persona sofferente. Il venire vicino può essere sì un gesto generoso e anche positivo, senza tuttavia avere le caratteristiche del fare compagnia. Ci vogliono almeno due requisiti per una presenza umana capace di fare compagnia nel senso di permettere l’emergere di un significato operativo. Il primo è: non censurare niente. La presenza del compagno non rifiuta né si schifa di guardare in faccia nessun aspetto del dramma dell’altro, neanche quelli più turbanti o moralmente discutibili. Il secondo: chi fa compagnia la fa se sta davanti all’altro con quello che io chiamo un’ipotesi di valore. Un’ipotesi di valore vuol dire che uno guarda all’avventura dell’altro partendo dall’ipotesi che valga la pena, cioè che c’è un valore adeguato nel cammino di sofferenza dell’altro. Non ha bisogno di essere chiaramente definita, e tanto meno ha bisogno di essere spiegata necessariamente all’altro. Però lo sguardo con cui uno guarda all’altro o cerca positivamente una verifica di questa ipotesi o non invita alla fine l’altro ad aprirsi alla scoperta di questo valore, di qualcosa per cui vivere valga la pena.

Mi viene in mente un episodio che ho vissuto negli Stati Uniti come cappellano in un ospedale quando era ricoverato un pastore protestante in pensione molto famoso nella nostra zona. Per rispetto decisi di passare a salutarlo, come per una sorta di cortesia professionale, sapendo che altri pastori protestanti venivano a stare vicino a lui. Aveva sempre al suo fianco la moglie e qualcuno dei suoi figli grandi. Mi sedevo vicino a lui e ascoltavo mentre mi esprimeva i suoi dolori e le sue paure, confermando quello che diceva con un “Ti credo, Frank” o con un “Ti sto ascoltando, Frank”. Una volta, finita la breve visita, sono uscito e una delle sue figlie mi ha seguito e fermato per esprimermi il suo sentito ringraziamento. Ero confuso da questo atteggiamento e dicevo: “Ma no, passo solo per salutare”. “Ma tu lo ascolti e lui si sente capito e accompagnato da te. La verità è che quando si lamenta o parla dei suoi tormenti, cerchiamo sempre di farlo pensare a qualcosa di positivo. Vedo adesso che noi che siamo stati sempre con lui in realtà l’abbiamo lasciato completamente solo!”. E con questo iniziò a piangere a dirotto.  Lei ha capito che non lo accompagnavano. Perciò finiva che lui stava in attesa di queste brevi mie visite di saluto.

Vorrei adesso raccontare di Giuseppina. Non ricordo la sua età, ma aveva all’incirca 70 anni. Era malata di Sla e mi era stata indicata perché insisteva sempre sul fatto che non voleva più andare avanti, voleva essere aiutata a morire. Quando la visitai la prima volta, si mise subito, e continuò a lungo, ad esprimermi questo desiderio. Quando ha finito, abbiamo potuto parlare insieme di lei. Era cresciuta con delle sorelle in un orfanotrofio, poi si era sposata e aveva avuto due figli. Il marito l’aveva abbandonata, anche se poi, quando si era ammalato, era tornato per essere curato da lei fino alla morte. I due figli maschi, ormai di età matura, lavoravano, non si erano mai sposati, né avevano figli. Quando le era stata diagnosticata la Sla, sua sorella Caterina, che abitava molto vicino a lei, l’aveva rassicurata che l’avrebbe accompagnata in questa strada. Ma dopo un anno anche lei si ammalò di tumore e morì poco dopo.

Giuseppina era aiutata da una donna rumena e dai due figli. Ho iniziato a interessarmi alla storia della sorella e ho presentato a Giuseppina la figura di santa Caterina di Siena per poter stare vicino alla sorella defunta. Le portai tante reliquie della santa e le ho letto anche un paio di biografie. Cominciavamo sempre con il suo desiderio di morire, ma poi Giuseppina era sempre contenta di passare a imparare dalla santa, chiedendo la sua intercessione. Più avanti ho capito che una fonte acutissima della sua sofferenza era legata al peso che le sue cure rappresentavano per i suoi due figli. Ho assistito infatti a diverse scene in cui emergeva chiaramente la frustrazione vicendevole per le cure impegnative che la sua malattia richiedeva e non voleva più essere di peso ai suoi figli.  Voleva andarsene.

Dopo aver meditato a lungo, ho deciso un giorno di condividere con lei questo pensiero: “Giuseppina, è chiaro che per i tuoi figli la tua malattia rappresenta una grossa e pesante sfida. E anche per te, non sopportando l’idea di essere un ‘impedimento’ alle loro vite, è un peso insopportabile. Ma io vedo anche questo: non so perché, ma anche se i tuoi figli non sono più tanto giovani, non hanno allacciato rapporti intimi importanti, non hanno formato una loro famiglia e non hanno nemmeno grandi contatti fra loro. Insomma, sembra che, anche se sono persone oneste, non abbiano mai imparato ad amare. Credo che questa tua malattia sia per loro come un’ultima chance per fare scuola di amore, per imparare come offrire la vita per il bene di un altro. Se te ne vai, li priverai di questa grande scuola. Il tuo sacrificio sta offrendo a loro una cosa grande e necessaria. Preferiresti non offrir loro questa possibilità?”.

Non ha mai risposto in modo chiaro a questa mia provocazione, di cui ho parlato alcune volte con lei. So solo che non mi ha mai più espresso il desiderio di essere aiutata a morire. Non solo: nell’ultimo anno e mezzo di vita si era completamente trasformata. Da un volto spesso travolto dall’angoscia si era trasformato in un viso sereno, a volte addirittura beato. Aveva incontrato un significato. Facendo compagnia, ho permesso il sorgere di questo significato che le ha consentito di accogliere questa strada e di viverla con grande libertà, dicendo di sì con tutto il cuore.

La dinamica della vita viene accesa da un significato e la compagnia è lo strumento privilegiato che libera la persona, così che possa incontrare questo significato.

Vorrei a questo punto indicare un passo nella mia fede che mi ha molto favorito in questo lavoro di accompagnamento, in questo stare davanti all’altro senza censurare niente e con un’ipotesi di valore. Dopo una quindicina di anni come sacerdote, mi sono trovato in grande difficoltà e non vedevo come poter andare avanti nella mia vocazione. Dio, ad un certo punto, mi liberò da questo blocco facendomi compiere un passo grande. Ha fatto emergere in me una domanda, la domanda più originale che alberga nel cuore dell’uomo ed è anche la domanda per rispondere alla quale Cristo è venuto nel mondo. Fino a quel momento avevo sempre cercato la grazia del cielo, l’aiuto di Dio e la redenzione di Cristo, ma non avevo mai mendicato di essere salvato. Questo periodo di crisi mi ha portato a porre questa domanda.

È una domanda che non pone condizioni. Se chiedo aiuto, implicitamente indico come voglio che vadano le cose, pongo le condizioni con cui vorrei ricevere l’aiuto. Se uno cade in una fossa e non riesce a venire fuori, comincia a gridare “Aiuto!”, e se qualcuno alla fine arriva stende la mano giù per tirarlo su, ma poi tirando magari riesce a slogare la spalla dell’uomo che è nella fossa e questi inizierà allora a gridare, “Lasciami, idiota! Va a prendere una scala!”. Questo è il grido di aiuto. Ma se, caduto in una fossa, la trova piena di acqua infangata e profonda e non riesce a stare a galla, comincia a ingoiare fango, inizia ad affondare e se in quel momento arriva una mano da sopra che nel tirarlo su gli sloga la spalla, l’uomo nella fossa non dirà più ‘Lasciami, idiota!’, bensì ‘non mollare! Tira! Tira! Tira ancora!’, nonostante il dolore terribile. La domanda della salvezza è una domanda esistenziale, che mendica di non veder sparire, smarrire la propria esistenza. Ecco perché non pone nessuna obiezione, nessuna condizione.

Quando ho cominciato a vivere con questa domanda ho scoperto una cosa nuova. Ho scoperto il “noi” dentro l’io. Perché ho cominciato a riconoscere che questa domanda è la vera e autentica domanda di chiunque, di ogni cuore umano. Perciò trovo che interessa tutti. Non importa quanto siano pericolosi, minacciosi o noiosi. Vedo che si pongono la mia stessa domanda: ‘Salvami, Signore!”. Diventa quasi automaticamente: “Salvaci, Signore”.

Così la fede è un enorme vantaggio per fare compagnia.  La nostra ipotesi da verificare è la presenza di un salvatore.  Il nome di Gesù vuol dire: “Dio Salva”. Questa ipotesi ci apre all’altro senza la necessita di censurare e anche all’ipotesi di valore.  Perché trovare all’opera in mezzo a noi il Salvatore rende qualunque strada qualcosa che vale la pena di essere vissuta. La mia esistenza trova corrispondenza in un amore eterno, in un sacrificio in atto per redimere l’esistenza. È la misericordia. L’ipotesi è che Lui c’è ed è all’opera. Verificare questo vale tutto.

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