Ci sono pensieri che nascono muti: ci penseranno le mani ad esprimerli. A me quel cubo di legno di cirmolo non diceva assolutamente nulla: stazionava tra il caos e la polvere di una sala di galera adibita, per l’occasione, a laboratorio di scultura. Legno, cubiforme, odoroso: nient’altro. L’uomo che mi stava accanto lo prende in mano. Lui è maledetto, detto-male dalla società: galeotto, ergastolano con tutto ciò che ne consegue. Ha mani che tramandano una storia assassina: sangue, ferocia, prepotenza. Forse hanno ucciso, o hanno concorso a farlo, più probabilmente sono mani dannate.



L’uomo è un dannato, uno dei tanti in questo paese di dannati ch’è una patria galera italiana. Lo guardo mentre fissa il legno: impressionato, fanciullo. “Scusa l’indiscrezione – dico – sono curioso: perché lo guardi in quella maniera lì?”. M’appassionano da pazzi le occhiate degli artisti. A quell’uomo non sto affatto simpatico: per il mestiere, il carattere, l’arroganza. Ci sta: è la vita nei bassifondi di un paese matto, di matti. “Vedrai!” risponde con la sua rinomata parsimonia. Quando lo chiesero a Michelangelo, lui rispose: “Ho visto un angelo nel marmo ed ho scolpito fino a liberarlo”. L’uomo che mi sta di fronte, però, non è Michelangelo. Almeno da ciò che racconta di lui la giustizia.



Inizia a scolpire. Lo guardo per qualche attimo, il tempo di un’intuizione: si usano gli specchi per guardarsi il viso ma accade, ogni tanto, che qualcuno usi l’arte per guardarsi l’anima. Un’ultima occhiata alle sue mani: qui dentro più che a guardarle, sto imparando ad ascoltarle. E poi tradurle: dal modo che hanno di muoversi mentre si parla, tace, non si fa nulla, si scolpisce. Esistono parole che solo le mani sanno pronunciare.

Per tre mesi, poi, mi dimentico dell’uomo che scolpisce, del cubo di legno, della mia domanda. Lui, da parte sua, è abituato al menefreghismo generale nei suoi riguardi. Più che farci caso ci ha fatto la casa: l’ha fatta diventare abitazione per l’anima. In carcere ci si improvvisa artisti per scappare da quest’inferno: “Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno” scriveva A. Artaud. Anche quest’uomo ha voglia di fuggire via da qui dentro: si vede dalle mani che sono parole in movimento. Sulla credenza lì vicino, hanno appeso un post-it, forse per non perdere l’ispirazione acquisita: “Mani che aiutano sono più sante di labbra che pregano”. Ogni riferimento a persone è puramente casuale.



La vigilia di Natale, nella chiesa del carcere, mi siedo a pregare: “Scusa il disturbo. Posso?” dice dopo avere bussato. Entra con in mano un pacco regalo: “Non ci stiamo simpatici, ma ti volevo fare un regalo”. La vita abbatte, schiaccia l’anima: l’arte ti ricorda che ne hai una. L’arte, poi, è un incidente dal quale non si esce mai illesi. Sorpreso da quest’imprevisto, lo apro in presenza di lui: “Te lo ricordi quel cubo di legno? Mi chiedevi perché lo guardassi in quella maniera. Ci ho messo tre mesi a risponderti. Ecco la mia risposta: buon Natale”.

Tra le mani ho il Gesù-Bambino scolpito in legno di cirmolo: ha tratti di poesia, l’increspatura dei capelli è di un’arte sopraffine, ha dita parlanti, piedi da ballerino. Non avessi visto chi me l’ha donato, avrei giurato arrivasse dalla Val Gardena. Le opere più belle dell’uomo sono ostinatamente dolorose: scolpire non è scavare, è trovare dentro il respiro della vita, mostrarlo al mondo intero. Cos’altro significa l’arte se non mostrare il divino nascosto dentro le cose? L’uomo rifiuta persino un grazie.

Lo poggio sull’altare: il Bambino mi guarda, mi perdo nel guardarlo. Rivado indietro di tre mesi: io e quell’uomo abbiamo visto lo stesso legno, stesso cubo. Lui, cattivo, dentro ha intravisto il Dio Bambino; io, presunto buono, non mi ero accorto ci fosse dell’altro oltre al legno.

A Betlemme Cristo passò nascosto nel ventre di Maria: nessuno se ne accorse, sebbene tutti l’aspettassero. In galera, stavolta, è passato nascosto in un cubo di legno. Il prete, che l’aspettava, non si è accorto. Un cattivo, invece, l’ha aiutato a nascere. Ha fatto (ri)nascere Dio.