Cucù, la Superlega non c’è più. Dalle prime pagine dei giornali a quelle in fondo, di nuovo nello sport, prima dall’apertura nei siti web a una posizione meno nobile. Tutta la vicenda è stata incredibile e, secondo me, senza vinti né vincitori.
Sì, Agnelli e Perez, “la coppia diabolica”, ha dovuto battere in ritirata, ma non ha arretrato dal progetto. Chissà che non ritorni, più in là.
Al di là di tutti quelli che cantano la vittoria dello sport (diffidate di chi si riempie la bocca con “i valori”, sono i primi a tradirli) tutta la vicenda appare strana, dall’annuncio affrettato all’altrettanto repentino arretramento dei club inglesi davanti al fronte del no che ha accumunato governi, opposizioni, destra, sinistra, Europa e Gran Bretagna, tedeschi e francesi, Boris e Ursula.
Non sono un dietrologo, ma per essere una Superlega è apparsa fragile, insicura. Ma come fanno dei club prestigiosi che vi aderiscono a pensare che non succeda quello che abbiamo visto succedere? Aveva senso affrettare la discesa in campo? Non erano tutti d’accordo? Non erano state firmate delle carte vincolanti prima di dare l’annuncio? C’è una larga parte di sottaciuto in tutta questa storia, che, però, con l’incombere del campionato e di altri problemi, sta scivolando via.
Vedremo se ci saranno ripercussioni, ma se c’è un aspetto del calcio che in quarant’anni si è sempre ripetuto con una costanza senza paragoni, è l’oblio dell’inimicizia. Insomma, oggi Ceferin e Agnelli si odiano. Forse è troppo, diciamo che il primo disprezza il secondo. Ma domani potrebbero cambiare parere e ritrovarsi a parlare, magari finirà, al solito, a tarallucci e vino. L’abbiamo visto succedere altre volte.
Resta la domanda che abbiamo posto quando la Superlega è stata annunciata: che calcio vogliamo? Se la riforma cercata da questi dodici club che poi dovevano salire a 15, quindi 20 e invece si sono ritrovati in due e mezzo, dopo una serie di retromarce, poteva apparire elitaria e contraria ai valori meritocratici, l’attuale sistema calcio non è sicuramente il miglior mondo possibile. Parlavamo dell’importanza della domanda, ora è importante dare una risposta. Su come ognuno di noi, tifoso accanito o semplice suiveur, appassionato o distratto osservatore, vuole vivere il rito del pallone.
Avevamo paura che la Superlega distruggesse il giocattolo, ma lasciandolo così com’è, rischiamo che si rompa lo stesso. È stata la crisi seguita alla pandemia ad affrettare il tentativo della Superlega, sono stati i miliardi di perdite subite dai club ad accelerare l’annuncio. Forse è stato anche un modo di dare l’allarme, di segnalare una sofferenza.
Un anno fa, alcuni si battevano per tornare in campo, anche senza pubblico, mentre molti sostenevano: che cosa vogliono questi del calcio, ricchi e viziati? Nei confronti del pallone esiste questo pressappochismo, questa demagogia. Si pensa che sia un passatempo per ricchi, si pensa a Ronaldo e Messi, a Neymar e Salah, a Benzema e Lewandowski, come se non ci fosse niente, dietro a loro. Le star rappresentano il peso maggiore nei bilanci, il costo del lavoro è per i club un pozzo senza fondo. Ma attorno al calcio c’è un indotto di cui non teniamo conto. Molti dei soldi che volevano i club della Superlega sarebbero finiti a chi lavora nell’indotto, a decine di migliaia di persone, di famiglie le cui entrate non sono quelle di Ronaldo e Messi. Il calcio è una macchina complessa e sempre più difficile da far marciare.
Che calcio vogliamo? Abbiamo abbattuto la Superlega, disprezziamo il calcio dei ricchi, ma domani pretenderemo nuovi acquisti, altre spese per rinforzare le nostre squadre del cuore, altre palanche. Oggi dimostriamo contro il calcio degli egoisti, ma, nel calcio, siamo tutti egoisti.
La Superlega (per ora) non c’è più, ma tutti gli altri problemi sono qui. Oltre la poesia, passata la rivoluzione, resta la realtà.
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