Per molti anni l’inflazione non è stata la preoccupazione maggiore degli analisti economici, ma a quanto pare le cose stanno cambiando rapidamente.
Nella prima fase della pandemia era opinione diffusa che la crisi fosse di natura deflazionistica e quindi connessa alla dinamica della domanda aggregata. Il crollo del prezzo del petrolio, sceso a zero nel maggio 2020, sembrava rafforzare questo tipo di interpretazione, collocando l’inflazione fra le ultime preoccupazioni degli economisti, mentre la tendenza delle banche centrali a immettere nel sistema quantità senza precedenti di liquidità non si è mai interrotta.
A tal riguardo, l’attività delle banche centrali ha raggiunto livelli semplicemente sorprendenti, come recentemente ha fatto notare il Financial Times: l’offerta di moneta, M2, è aumentata del 24%, mentre l’aumento raggiunto nel 2020 ha superato tutti quelli registrati nell’ultimo secolo e mezzo. L’espansione monetaria ha avuto negli Usa il suo epicentro e da quanto si può intuire dall’intenzione palesata dagli uomini dell’amministrazione Biden di aumentare gli stimoli non si interromperà a breve, anzi sono in tanti a parlare di uno “tsunami di liquidità” che si abbatterà su Wall Street e, si spera, sull’economia reale.
Uno scenario che alimenta sempre di più il timore di un ritorno in grande stile dell’inflazione e che ha fatto immaginare a Michael Burry, divenuto famoso per aver previsto la crisi del 2008, uno scenario comparabile all’iperinflazione che travolse la Repubblica di Weimar. Per Nouriel Roubini, invece, non c’è da chiedersi se si realizzerà una spirale “inflattiva”, quanto piuttosto c’è semplicemente da capire “quando”, collocandola all’interno di un processo che prevede prima una ripresa a “L”, inflazione e poi depressione, che a ben vedere non sarebbe altro che la continuazione della Stagnazione secolare di cui dibattevano Larry Summers e Paul Krugman. Una prospettiva il cui l’obiettivo di raggiungere un livello medio di inflazione, unito a una sostenuta monetizzazione del debito e dei “deficit gemelli” – in cui si registrano passività delle partite correnti e di bilancio – porterebbe gli Usa e il dollaro a perdere la loro primazia geopolitica.
Uno scenario, va subito detto, che resta lontano e che non si è ancora realizzato per il semplice motivo che finora la Cina non ha mostrato né la voglia né la forza di muovere il passo decisivo.
A fronte di un quadro decisamente preoccupante, il Congresso degli Stati Uniti sta discutendo il piano di spesa, proposto dal presidente Biden, dalle dimensioni colossali, che prevede lo stanziamento di 1,9 trilioni di dollari e la misura che porta il salario minimo federale a 15 dollari all’ora. Un pacchetto di salvataggio che, anche se con diversi distinguo, trova i favori di prestigiosi economisti come Joseph Stiglitz e Daron Acemoglu. Misure eccezionali che però non sembrano diminuire il livello di incertezza che tiene avvinta l’economia mondiale e che fa sembrare il piano di salvataggio Usa come la conseguenza necessaria di un percorso iniziato con la crisi del 2007-2009 e lo stesso pericolo di inflazione fuori controllo come un rischio a cui non ci si può sottrarre. Il risultato, cioè, di una disinvolta alchimia monetaria.
In definitiva, le politiche espansive hanno contribuito ad aumentare in modo considerevole la base monetaria a disposizione, ma con un effetto moltiplicativo molto basso e quindi con una limitata velocità della circolazione della moneta. Va da sé che un aumento della velocità della circolazione conseguente a un incremento seppur limitato dei consumi contribuirebbe ad alzare il livello dell’inflazione. Se a questo quadro aggiungiamo il prezzo basso di beni e servizi, abbiamo buoni elementi per spiegare la deflazione che la pandemia sembra addirittura aver accentuato.
Uno sguardo più attento alla dinamica della domanda e dell’offerta restituisce però un quadro meno lineare, in cui al calo del prezzo dei servizi corrisponde un aumento di quello dei beni causato dai problemi legati a strozzature nella produzione e nei trasporti, dovute alla pandemia. Per questi motivi, il ritorno alla normalità potrebbe costituire l’innesto per un aumento dell’inflazione, che al momento sarebbe sottostimata, perché il costo effettivo dei panieri di consumo risulta più alto di quello che al momento viene registrato.
Da parte loro i mercati finanziari sembrano aver già messo in conto il rischio d’inflazione, come testimoniano il rialzo dei rendimenti dalla durata più lunga. Un segno non incoraggiante se consideriamo che i disavanzi pubblici finanziati con politiche espansive – che secondo un report di Ubs nel 2020 valevano l’11% del Pil mondiale – necessitano della fiducia di investitori e risparmiatori, i quali potrebbero iniziare a mostrare dubbi sulla solidità delle loro posizioni e giudicare negativamente il flusso di danaro nell’economia reale, valutandola come semplice conseguenza dell’espansione dei bilanci delle banche centrali. Un rischio che viene dai più collocato nel medio-lungo periodo, ma preoccupa il fatto che il tasso d’inflazione salga più del previsto e c’è il timore che ciò possa spingere progressivamente le banche centrali ad aumentare i tassi d’interesse, con i conseguenti problemi di finanziamento per governi, imprese e famiglie, il cui livello di indebitamento è continuato a salire durante la pandemia.
La prospettiva al momento sembra interessare solo gli economisti, ma ha evidenti conseguenze geopolitiche. Se consideriamo che l’aumento del costo delle materie prime, del trasporto internazionale e del Bitcoin – la cui euforia potrebbe essere il segno di una spettacolare bolla speculativa dagli esiti imprevedibili – ha avuto come contraltare il deprezzamento del dollaro, potremmo immaginare che settori del governo Usa e di Wall Street abbiano interessi a “esportare” nel resto del mondo le conseguenze nefaste di un’inflazione galoppante. A fronte della stretta connessione dei tassi d’interesse – forse l’unico vero simulacro rimanente della globalizzazione – un aumento dei prezzi al consumo nell’area del dollaro si propagherebbe al resto del mondo, amplificando le sue conseguenze distruttive. Una riedizione ancora più drammatica della crisi dei mutui subprime, che una volta arrivata in Europa divenne la crisi dei debiti sovrani.
Fare di un proprio problema il problema di tutti è una strategia che ha funzionato per tutta l’era del Dollar Standard, ma che in tempi di incertezza radicale può configurarsi come il più pericoloso dei giochi a somma zero e che, però, potrebbe non cogliere impreparato il governo cinese. Anche Pechino ha adottato politiche espansive, ma al momento l’inflazione non accenna a salire e la ripresa economica sembra sostenuta, ma indipendentemente da come vogliamo dipingere il reale stato di salute dell’economia cinese, il continuo ricorso a misure di allentamento monetario non ha intaccato l’attrattività dello yuan, che anzi in questa fase continua ad apprezzarsi.
Inoltre, il governo cinese, preoccupato per la stabilità del sistema, sembra disincentivare l’accumulo di rischi finanziari e da tempo ha pianificato un graduale e misurato aumento dei tassi d’interesse e una progressiva riduzione degli stimoli fiscali. La Cina, quindi, sembra prepararsi alla tempesta, mentre il resto del mondo cerca ancora di capire in quali acque sta navigando.