È una sensazione inusuale, per un film che non navighi nei mari del cinema estremo o underground, quella del nichilismo più cupo, quella di lasciare lo spettatore in uno stato di ottusa disperazione, o almeno è inusuale per il cinema degli ultimi tempi. Quindi tanto di cappello a Guillaume Nicloux per aver sondato umori simili nel suo La tour, presentato alla Festa del Cinema di Roma.
La trama ricorda da lontano alcune parabole di Stephen King: un palazzone di periferia francese, la torre del titolo, all’improvviso viene invaso da un’oscurità totale, oltre cui non c’è più nulla se non la morte, che taglia gli abitanti del complesso fuori da ogni idea di civiltà. La sceneggiatura, scritta dallo stesso regista, anziché concentrarsi sui tentativi di capire cosa stia succedendo e sopravvivere, risolvere quindi la situazione, guarda all’umanità costretta a sopravvivere, mostrando a cosa si è disposti pur di non dissolversi nell’oblio.
È qui che sta la scommessa vinta da Nicloux: raccontare l’involuzione del genere umano partendo dalla civiltà attuale e retrocedendo fino alle caverne dell’uomo preistorico, dall’iper-connessione alle pitture rupestri, gettando i personaggi nel buio metaforico di un mondo in cui luce – cinematografia a cura di Christophe Offenstein – e legami sono progressivamente negati, come a dire che le immagini (l’arte) e le persone sono ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
Però Nicloux non ha mai l’intenzione di fare una predica allo spettatore e nemmeno di usare espressamente il suo racconto come metafora, ma lascia che la situazione cresca e risucchi i personaggi, che dalle loro privazioni nascano l’angoscia e l’emozione dello spettatore e li segue senza mai calcare la mano sugli effetti per mostrare l’essenza oscura delle persone e dei loro comportamenti. Oggi, come millenni fa, a patto di reggere il peso dell’abisso che guarda imperterrito dentro di noi.
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