Chiamato a dare uno sguardo sul pianeta Terra, per la tanto attesa esibizione di Celentano al Festival di Sanremo, il vostro vecchio Yoda non ha potuto contenere un senso di profonda tristezza per tutto l’insieme. Per l’insieme della situazione del paese Italia, che oltre a soffrire per la crisi economica, soffre anche per una drammatica crisi culturale in senso lato, tanto lato da includere anche lo spettacolo, e persino uno spettacolo canoro come il tradizionale festival.
E perché nonostante la scenografia che ricordava Star Trek e i viaggi nello spazio, il tutto assomigliava sempre di più al “vorrei ma non posso” degli spettacoli delle balere di periferia, visto il grande spreco di aggettivi esagerati sulle qualità canore di cantanti appena passabili, con l’onesto e sempreverde Morandi che si sforzava di fare il bravo presentatore, avrebbe detto Frassica.
Ma il culmine della modestia culturale lo si è raggiunto con la tanto attesa performance di Celentano. Introdotto da sparatorie, rumori di bombardamenti (qualche effetto speciale a poco prezzo mescolato con spezzoni di vecchi film di guerra, qualche lampo stroboscopico e un po’ di fumo), Adriano è emerso da un ammasso di comparse colpite a morte… facendo cascare subito l’asino: perché incapace di trattenere un sorriso compiaciuto di fronte a un troppo compiacente applauso. Come a dire “anche stavolta vi ho stupito, vero?”.
Altre volte c’era più congruenza tra il dramma evocato dalla scenografia e i contenuti dei suoi sermoni. Questa volta no: s’è capito subito che si sarebbe dedicato alla ricerca del facile effetto pur di ricavare un po’ di titoli dai giornali del giorno dopo.
Eccolo quindi subito a testa bassa ad attaccare – davvero senza una qualche plausibile ragione – Avvenire e Famiglia Cristiana, la Corte Costituzionale, a dare del deficiente al critico televisivo del Corriere della Sera Aldo Grasso, a parlare di Gesù e di Paradiso maltrattando i preti, mescolando populismi da bar con qualche mezza verità… insomma un sermone inconcludente, che non aveva nemmeno più l‘insensata follìa dell’Adriano di una volta.
Un po’ meglio il gramelot anglosassone in cui s’è rifugiato (uno dei suoi evergreen) cantando un paio di rhytm and blues, quasi più comprensibile delle sue sconclusionate concioni, applaudite a gran voce da una sgangherata e davvero eccessiva claque. Pronta addirittura a urlare di entusiasmo alle più modeste affabulazioni populiste.
Inutile dire che la cosa migliore sono state le canzoni (l’unica cosa che non sembra invecchiare è la sua voce), pescate però per lo più nel vecchio e consolidato (e assai facile) repertorio boogie-woogie. Verrebbe da commentare complessivamente: un po’ di consolidato mestiere senza un briciolo di idee. Giusto la metafora di un Servizio Pubblico che invece di darci il meglio, riesce a spremere il peggio anche dai meglio fichi del bigoncio.
C’era già riuscito con due mostri sacri come Fiorello e Benigni: uno fiero di poter dire la parola preservativo come momento di grande coraggio sociale televisivo, l’altro addirittura capace di recuperare una modesta goliardata di tanti anni fa così da superare il 50% di share parlando della cacca.
Un Servizio Pubblico, quindi, capace oramai solo di catturare i suoi telespettatori vecchi-bambini facendoli ridere come infanti alludendo agli escrementi. Un Servizio Pubblico che si appella a un ex-grande, sempre più tristemente simile a un trombone culturalmente sfiatato, solo perché capace di attirare un po’ di audience e di rumore mediatico, a prescindere da qualsiasi contenuto.
Un Servizio pubblico che ti riempie l’Ariston di una insipiente claque, pronta ad applaudire Adriano perché fa una pausa bevendo un po’ d’acqua o a urlare “bravo” a Papaleo per aver detto “’fanculo”…
Come si fa allora a non provare un senso di profonda tristezza?