“Quello che non ho” comincia con una grande immagine di Pasolini, che dice “il vero fascismo è costituito dalla civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia”. Poi arriva Fazio che dice (testuale), con ineffabile presunzione: “Quello che non ho è Pasolini e quello che avrebbe detto di noi…”. Yoda si immagina facilmente cosa avrebbe detto, dopo aver visto un programma durare quasi quattro ore per poter fare tutte quelle interruzioni pubblicitarie… Che faccia tosta! Si parte con la classifica delle parole inviate dalla gente: rispetto, dignità, futuro, libertà… L’attore Santamaria canta Quello che non ho con la stessa voce di De Andrè, ottimo l’accompagnamento funky del gruppo guidato dal pianista Mark Harris, uno dei più abili session man della scena musicale italiana.

Saviano riapre una ferita molto dolorosa: la fabbrica di Eternit di Casale Monferrato. Eccoci subito al modellino virtuale stile Vespa, con l’elenco delle malattie provocate dall’amianto: asbestosi, mesotelioma, terribili malattie di cui si accennano alcuni trucidi particolari. Imita sempre di più Paolini, raccontando tristi storie di operai morti per il contatto con la micidiale polvere. Ricorda l’impegno di quei pochi coraggiosi che hanno studiato e denunciato i pericoli di quelle lavorazioni. Il racconto è inframmezzato dalla drammatica ricostruzione di Romana Biasotti, coraggiosa presidente dell’associazione famiglie delle vittime. Quando termina la sua lettura, c’è un applauso liberatorio.

La narrazione procede come un giallo. Saviano ricostruisce il processo, la controinformazione costruita dalla proprietà, i tentativi di tacitare la comunità con risarcimenti in denaro. Cita Primo Levi, è stato commovente. Poi, bella dissolvenza musicale con Elisa che si cimenta nella intramontabile Hallelujah di Leonard Cohen. Meritatissimi e lunghi gli applausi. Ma Fazio interrompe l’incantesimo chiarendo che l’unico modo per riscattare anche una tragedia come questa sono la musica e la poesia…non l’avevamo mica capito! Ecco che riappare il solito maestrino che ci deve educare tutti, sia su queste verità incontrovertibili e su altre meno condivisibili ma per lui assolute.

Claudio Magris descrive le regole inutili e inoffensive, alludendo alla necessità di altre regole più serie ma non specificate. Il contenuto è flebile, ma è Magris: la riaffermazione che ancorchè per un flebile contenuto, il microfono deve essere dato a uno del circolo fazista. È il momento della Litizzetto, che comincia a entrarci come i cavoli a merenda. Volgarotta, ripetitiva, clownesca sempre più di bassa lega. Ha scelto la parola “basta”, e alla fine dice “basta significa saper finire” (avesse avuto il coraggio di dirlo all’una meno venti, quando non la finiva più…). Appunto, lei non ci riesce, anzi annuncia che tornerà, purtroppo. Valerio Magrelli tiene una lezioncina sulla poesia. Vuol farci capire quanto è intelligente, butta lì spunti interessanti, che però sono solo spunti incompiuti. Poi con voce funebre ricorda l’anniversario degli attentati a Falcone e Borsellino, ma al solito lo dice come se fosse un loro merito esclusivo ricordarlo. Altro doveroso e un po’ obbligato applauso.

Alla grande ritorna Elisa, suonando benissimo da sola la chitarra, che interpreta Redemption Song di Bob Marley. Emozionante accompagnamento del coro. Una cosa alla James Taylor, per intenderci. Giuseppe Gullotta, ingiustamente carcerato per 22 anni, racconta la parola “libertà”. Assolutamente e semplicemente commovente. Poi tocca a Gramellini, e ricaschiamo in Che tempo Che Fa. Ghiotta occasione per parlare della paghetta che i figli di Bossi avrebbero preso, secondo le notizie del giorno, dai contributi pubblici. Sembra Crozza e fa ridere, molto ma molto di più della Litizzetto. Strapazza la Lega che se la merita tutta. Finalmente arriva Marco Paolini, il vero ispiratore di Saviano. L’atmosfera si fa subito sospesa: ci parlerà del treno, l’argomento è perfetto per lui, sembra un racconto di Calvino. Descrive la ferrovia come un sistema sensibile che descrive una nazione. Racconta la nostalgia del treno a vapore in un mondo liquido. Racconta l’arte del saper fare dei macchinisti di una volta. Ci parla della solida “biellezza”. Peccato, a seguire, un balletto un po’ qualunque, con l’idea stra-copiata del ballerino che sfoglia cartelli con frasi allusive.

Finalmente stiamo capendo come poteva essere perfetta la trasmissione: pochissimi Fazio e Saviano, niente Litizzetto, meno ospiti meglio selezionati, tre canzoni di Elisa, due monologhi di Paolini. Tutto in 90 minuti. Senza tutto questo bisogno di farci la lezione, di farci sapere quanto loro sono democratici, progressisti, educati, e favore dell’uguaglianza sessuale come grande battaglia di civiltà. Dopo la pubblicità, grande inciampo culturale: il fotografo Roberto Koch (altro membro del circolo fazista) commette un errore grave, ossia descrivere una famosa foto di Samuel Aranda, facendoci una lezioncina sulla fotografia senza nemmeno farci vedere la foto. Inaccettabile distrazione della regia. Olmi strappa applausi per la sua sola presenza. Peccato che il maestro si perda in una riflessione sul tempo alquanto banale. È possibile che anche lui debba leggere?

Tocca di nuovo a Elisa che va sul facile con Knocking on heavens door, ma di grande effetto, ben sostenuta da band e coro gospel. Avremmo voluto continuasse, invece c’è di nuovo Saviano. Di nuovo alle prese, questa volta, con trucidissime descrizioni della vita nei laogai (lager) cinesi. Invece del modellino stile Vespa, c’è un tavolo con i prodotti fabbricati laggiù. Ma lo stile è lo stesso. Il dramma dei dissidenti racchiusi là è grande, ma il racconto comincia a essere noioso. Molto meglio la coreografia a seguire con un balletto che ricorda i figli dei fiori, colonna sonora Revolution dei Beatles. Con grande faccia di tolla Fazio e Litizzetto si confrontano a base di stereotipi e luoghi comuni, dimenticando che ce ne hanno ammollato parecchi per tutta la sera. Arriva un prete. Chi è? Ma lo stimatissimo priore di Bose, off course. Molto amato a sinistra e quindi a pieno titolo membro di diritto del circolo fazista. Meno male che torna la musica, con il co-autore di Quello che non ho che segue una rocckeggiante versione della sua canzone. Poi Walter Siti, altro raffinato sinistrorso filo-gay, ci parla con eleganza del lusso: i membri del circolo fazista oramai dilagano.

Meno male che c’è sempre più spesso Elisa, questa volta alle prese con il piano Rhodes e la canzone Wonderful world: si dimostra cantante davvero brava e completa. Poi compare un preoccupante cartello: fine prima parte… Dopo la pubblicità la parola futuro è a cura di Stefano Bartezzaghi, che scrive…dove? Ma su Repubblica, naturalmente: i membri del circolo fazista se la fanno e se la dicono tra di loro…e ditemi se da questi autori non promana un pericoloso pensiero unico! A proposito del circolo fazista, interessante questa recensione di Stefania Carini su Europa, che proprio a sinistra sta: “Ci sono veri e propri riti di espiazione culturale: assistere al Grande Spettacolo Teatrale, visitare la Celebre Mostra d’Artista, sostenere i giovani-vecchi che Fanno Arte. Fazio butta là ironico un OccupyLa7, e pareva riecheggiare quelli di Macao, il collettivo sgomberato il giorno dopo dalla Torre Galfa di Milano. Pretendere uno spazio e farne quel che si vuole: è la vera tendenza della cultura italiana. È anche la tendenza di quest’anno televisivo (Volo, Bignardi, Guzzanti…): senza alcuna vera idea, si va in scena con i propri amici e si monologa autoelogiandosi”.

Semplicemente perfetta. Stiamo sempre a sinistra, così Yoda non viene tacciato di pregiudizio: “I fanboys di Quello che non ho sono comicamente permalosi… Di fronte alle critiche si trincerano dietro la Linea Maginot del perbenismo pensoso: ‘Sì, forse ha qualche difetto, però se non vi piace guardatevi il GF. Di meglio non c’è’. Attenzione: messa così, Quello che non ho sembra la dependance del Partito Democratico”. Andrea Scanzi, da Il Fatto Quotidiano!

E finiamola qui, mentre il circolo fazista sta ancora andando avanti a sproloquiare con quello che hanno e quello che non hanno. Lasciamoli al loro destino: l’incapacità di finire è propria dei mediocri. Abbiamo assistito a una lunga presuntuosa maratona, con alcuni spunti e momenti molto belli. Poteva durare un terzo ogni sera ed essere perfetta, con un maggior sfoltimento dei membri del circolo fazista e più musica. Ma avidità e presunzione hanno fatto la frittata. Con buona pace di Pasolini esibito all’inizio con la sua critica alla civiltà dei consumi. Fazisti e anche farisei.