Di corsa, senza un pelo di discussione, i senatori hanno approvato in zona Cesarini la riforma della Rai, un attimo prima che il Senato chiudesse martedì 22 dicembre per le festività. Con questa riforma il direttore generale della Rai diventa un amministratore delegato superman con poteri mai visti a viale Mazzini: potrà nominare direttamente i direttori di rete, assumere e promuovere giornalisti, firmare contratti fino a 10 milioni di euro, assegnare appalti in deroga al Codice dei contratti pubblici. Viene nominato dall’azionista, vale a dire dal Governo, e avrà diritto di voto in un Cda composto di 7 membri, due votati dalla Camera, due dal Senato, uno dai dipendenti Rai, e due nominati dal governo (tra i due l’Ad). 

I giornali non hanno dato grande rilievo a questa vera e propria rivoluzione, che ha subito suscitato le proteste di Beppe Giulietti e Raffaele Lorusso, presidente e segretario generale Fnsi, e di Vittorio Di Trapani, segretario nazionale Usigrai: “Da oggi l’azienda sarà guidata da un amministratore delegato, quindi da un capo azienda con molti più poteri, scelto direttamente dal governo. Allo stesso tempo, con la Legge di stabilità, il governo si prende il controllo anno per anno anche dei finanziamenti del Servizio pubblico, uno degli strumenti più forti per condizionare la gestione e le scelte editoriali della Rai. L’Italia è già da troppo tempo in fondo alle classifiche mondiali per la libertà di informazione. Ora c’è il concreto rischio di scivolare ancora più in basso”. 

Non priva di interesse l’analisi di Roberto Zaccaria, già presidente della Rai dal 1998 al 2002, e professore di diritto costituzionale e studioso dei mass media: “Una brutta legge che non affronta i nodi principali dell’assetto radiotelevisivo pubblico e che disegna la nuova Rai come una sorta di Dipartimento della Presidenza del Consiglio. I principali quotidiani hanno relegato la notizia nelle pagine interne e molti di loro, per renderla attraente, hanno ritenuto di “condirla” con la previsione economica del gettito del nuovo canone (+420 milioni) riscosso in bolletta e derivante da un’altra legge (quella di Stabilità). Una sorta di eterogenesi dei fini. L’assimilazione del nuovo assetto Rai con quello di un Dipartimento della Presidenza non deve suonare affatto dispregiativo né per la Pubblica amministrazione, né tanto meno per gli uomini e le donne chiamati a guidare la Rai. Innanzitutto perché ci sono dipartimenti della Pa di primissima qualità retti da eccellenti “servitori dello Stato” che meritano la massima ammirazione e che “governano” importanti, anzi, decisivi settori della vita del Paese. 

I nuovi vertici della Rai e in particolare la Presidente e il DG, ora ribattezzato AD, hanno “curricula” di tutto rispetto e certamente governeranno al meglio la radiotelevisione pubblica nei prossimi anni. Il problema è un altro. Non è qui in discussione la capacità delle persone, ma la bontà di un assetto. La predisposizione o meno di “regole” adeguate per governare una televisione pubblica in una fase di transizione estremamente delicata. Le parole chiave, i principi, che dovevano essere declinati dalla legge sono tra i più impegnativi: autonomia, indipendenza, pluralismo. Questi principi non rappresentano qualità individuali, ma devono essere assicurati, garantiti dal disegno della struttura. In questa legge proprio non si vedono. Nessuno chiede ad un Dipartimento dello Stato di assicurare questi valori, ma alla televisione pubblica si. Si provi a dare un’occhiata all’assetto dei principali paesi europei e si faccia un confronto serio e leale: mi permetto di dubitare che si possano trovare analogie con il modello italiano”. 

Più tranchant il giudizio di Enrico Mentana, che dal TG della concorrenza sentenzia: “Con questa riforma torniamo a prima del 1975, a una Rai che dipende dall’esecutivo. La fonte di legittimazione del Cda è la commissione di Vigilanza, ma soprattutto l’amministratore delegato con pieni poteri è Palazzo Chigi. Il nodo non è tanto Matteo Renzi, perché lui è un premier pro tempore. Il tema vero è che questa riforma schiaccia ancora di più l’emittente pubblica sotto il peso del potere politico, legandola al Governo. E la dipendenza è rafforzata anche dal canone, che verrà rastrellato inserendolo in bolletta. una misura che crea una chiara distorsione del mercato”.

Alla Commissione di Vigilanza, che prima nominava i membri del Cda, ora sono rimasti solo poteri di indirizzo e di controllo. Ma bisognerà vedere come sarà il nuovo Contratto di servizio, come farà a non collidere con la grande autonomìa consentita ora all’As superman, e se avrà capacità di sanzionare oltre che di controllare…

Al vostro Yoda sembra tutta una manfrina, anche le proteste dei Gasparri di turno, che ritengono incostituzionale la legge. Prima c’era la foglia di fico della Commissione di Vigilanza, che però nominava i membri del Cda, con l’intervento dei partiti. Con la riforma i partiti ci sono ugualmente, ma in più c’è una presenza diretta dell’esecutivo nel controllo dell’azienda come non succede in altri paesi. Al vostro vecchio Yoda non rimane che concordare con le tesi del prof. Zaccaria, e ricordare che più volte aveva segnalato la corsa da parte di Renzi a occupare tutti posti che contano, dalla Cassa depositi e prestiti, alle aziende pubbliche, e ora…taaac, anche la Rai. Si può dire tutto del nostrano Mr. Bean, tranne che non sia onnivoro e velocissimo.