L’operetta di Franz Lehár Die Lustige Witwe (“La vedova allegra”) andò in scena in un teatro di Vienna dedicato agli spettacoli “leggeri” il 30 dicembre 1905. Poche settimane prima c’era stato il debutto mondiale di “Salome” di Strauss a Dresda e poco più di un anno prima c’era stato il tonfo della prima edizione di “Madama Butterfly” di Puccini alla Scala. Die Lustige Witwe , nel suo genere, è un lavoro rivoluzionario tanto quanto quelli di Richard Strauss e di Giacomo Puccini lo sono “nel filone aureo” del teatro in musica. Tutti e tre sono eminentemente femministi e l’eros femminile, in vari modi, ne è il motore.
In effetti, all’inizio del ventesimo secolo, l’operetta pareva una forma di spettacolo ormai al tramonto. In Austria con la morte di Johann Strauss era terminata l’età dell’oro del genere nel quale si rispecchiava una borghesia ricca e molto poco “imperiale”. In Francia, non c’erano più né Jacques Hoffenbach, né il mondo (principalmente quello del Secondo Impero) nei cui confronti le sue operette trasgressive lanciavano un’ironia graffiante. Viveva nelle satire sottilmente perverse che in Gran Bretagna la “premiata ditta” Gilbert & Sullivan lanciava nei confronti della società vittoriana e post-vittoriana, in lavori densi di “idioms” (frasi idiomatiche e doppi sensi) e, quindi, difficilmente traducibili e apprezzabili a sud della Manica.
Al pari di “Salome” e di “Madama Butterfly”, Die Lustige Witwe arrivò sulla scena europea con una vera carica rivoluzionaria per tre motivi. In primo luogo, per quanto adattata al teatro in musica da una mediocre “pochade” di successo, non era una rappresentazione, più o meno ironica, della società e della politica del tempo, ma una lettura visionaria di come la Mitteleuropa (Lehár veniva da un piccolo villaggio ungherese e per lustri si era guadagnato il pane nell’esercito e guidando, quando poteva, bande di paese) si immaginava fosse Parigi (metropoli dell’avvenire) e prendeva in giro gli statarelli balcanici che volevano autoconsiderarsi in via di modernizzazione. In secondo luogo, utilizza una linea melodica ricchissima e vi inserisce brani da “filone aureo” (la “Canzone di Vilja” al secondo atto) unitamente a prestiti dal melologo (parlato accompagnato da orchestra). In terzo luogo, l’azione drammatica porta oltre che ai numeri musicali a danza in cui, in aggiunta ai valzer, alle polke, alle mazurche e alle marce tradizionali, viene inserita la musica etnica per l’appunto slava, portando in orchestra liuti d’ascendenza araba. Infine, la commedia in musica è coperta da un velo di malinconia, anticipatore, quasi quanto lo avrebbe fatto sei anni dopo Der Rosenkavalier di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, dei colpi di pistola di Sarajevo, nonché, con la Prima guerra mondiale, della fine di un mondo e della centralità internazionale dell’Europa. L’orchestrazione e la vocalità, in linea con questi tre aspetti fondanti, ne fanno un capolavoro musicale, adorato da concertatori del livello di Kleiber, Rudel, von Karajan e von Matacic.
Questa premessa è essenziale per comprendere la tesi secondo cui quale che sia l’adattamento de Die Lustige Witwe occorre rispettarne lo spirito. Non ci sarebbe da scandalizzarsi di fronte a una ambientazione “visionaria” magari nella New York di oggi (quale immaginata da una piccola borghesia europea) con il Pontevedro come una Repubblica bananiera dei Caraibi o dell’America centrale. Oppure in una Islanda in bancarotta o in Irlanda e Grecia sull’orlo di esserlo, e in cui Hanna Glawary avesse parte delle caratteristiche di Angela Merkel. Sempre che vengano rispettati il carattere “visionario”, l’equilibrio tra parole e musica e la magnifica partitura. Nel 1990, il Teatro dell’Opera di Roma presentò un allestimento curato da Mauro Bolognini in cui la vicenda veniva ambientata negli anni Trenta, prima della Seconda guerra mondiale i cui spari restavano distanti: costruito attorno a Raina Kabaivanska e Mikael Melbe, funzionò perfettamente e fu ripreso sia nella capitale sia in altre città. Nel 2008 ha invece toppato miseramente la messa in scena di una costosa edizione, in parte in dialetto, nella Napoli della “munnezza”. Circa un anno fa è stato presentato, a Roma e a Venezia, un allestimento di Damiano Michieletto & Friends che ambientava la vicenda nel mondo bancario degli anni cCinquanta e in cui le sezioni recitate erano in italiano e quelle cantate in tedesco. Mi ha destato perplessità anche se finalmente il “pezzo a sette voci”, ripreso nel finale, era cantato Weiber, Weiber, Weiber, Weiber,ja! non l’orrendo È scabroso le donne scrutar della vetusta traduzione ritmica solitamente impiegata. È, però, piaciuto al pubblico tanto che ne sono state programmate repliche nella stagione estiva alle Terme di Caracalla.
La stagione è stata trasferita al Circo Massimo e Die Lustige Witwe è stata in forma di concerto e in lingua originale (con sovratitoli in italiano e inglese). Non si tratta di una forma di concerto in senso stretto, ma di ciò che in Francia si chiama una mise en éspace. Nel boccascena i cantanti cantano e recitano (la protagonista anche balla e cambia ben quattro eleganti abiti da sera), l’orchestra è sul palco, i sovratitoli a destra e sinistra del palco e sul maxischermo vengono proiettati brani del cinema muto attinenti al testo e alla musica. La parte dialogata è leggermente tagliata e, quindi, la parte di Njegus.
Occorre fare i complimenti alla regista Giulia Randazzo e alla scenografa Giulia Bellè, due giovani partecipanti al progetto “Fabbrica” (per la formazione e l’ingresso nella professione) del Teatro dell’Opera per il lavoro fatto: hanno trovato nel cinema muto la chiave per rileggere con ironia e umorismo, sotto il velo malinconico del passato, le mancanze del presente, prima fra tutte l’impossibilità di interazione ravvicinata tra gli interpreti sul palcoscenico. Hanno fatto un’accurata ricerca di archivio e creato un vero spettacolo nello spettacolo.
Molto buona la concertazione di Stefano Montanari che – mi si consenta senza essere Karajan o Matacic -, pur nelle difficili condizioni di dirigere all’aperto, ha guidato la sempre ottima orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, nel difficile equilibrio tra ironia e melanconia, tra gioia e languore. Buono il coro diretto dal maestro Roberto Gabbiani.
Di grande livello il cast composto da Nadja Mchantaf (Hanna Glawari), Markus Werba (Danilo Danilowitsch), Andrea Concetti (Mirko Zeta), Hasmik Torosyan (Valencienne), Juan Francisco Gatell (Camille de Rossillon), Marcello Nardis (Raoul de St. Brioche), Simon Schnorr (Vicomte Cascada), Roberto Accurso (Bodganowitsch), Roberto Maietta (Kromow) e Alessio Verna (Pritschitsch). Al loro fianco i talenti di “Fabbrica” Sara Rocchi (Prascowia), Marianna Mappa (Sylviane) e Angela Schisano (Olga). Le artiste del Coro del Teatro dell’Opera di Roma che danno voce alle Grisettes: Michela Nardella, Emanuela Luchetti, Claudia Farneti, Stefania Rosai, Silvia Pasini, Marzia Zanonzini.
Vale la pena soffermarsi sulle due coppie protagoniste di Die Lustige Witwe. È difficile trovare un soprano “assoluto” (in grado di passare facilmente dal lirico al drammatico o quasi) e un baritono di agilità che sappiano cantare, recitare e danzare come Nadja Mchantaf e Markus Werba. È parimenti difficile trovare un soprano lirico e un tenore di agilità che sappiano anche loto cantare, recitare e danzare come Hasmik Torosyan e Juan Francisco Gatell. Vocalità e azione scenica perfette.
Alla prima del 31 luglio, il teatro (1.400 posti) non era pieno: probabilmente molti potenziali spettatori sono stati allontanati dalla lingua originale e dalla “versione da concerto”. I dieci minuti di applausi sinceri augurano un buon tam tam per le repliche in programma.
Il Progetto Visivo
Alcune delle pellicole utilizzate:
– The Pawnshop di Chaplin (1916)
– It di Clarence Badger con Clara Bow (1927)
– Diary of a Lost Girl di Georg Wilhelm Pabst (1929)
– The Dresden Doll di Max e Dave Fleischer (1922)
– Our Dancing Daughters di Harry Beaumont, con Joan Crawford (1928)
– The Gold Diggers versioni 1933, 1936, 1937 (Warner)
– There’s Something About A Soldier con Betty Boop – Dave Fleischer (1934)
– The Gay Divorcee di Mark Sandrich (1934)
– Footlight Parade di Lloyd Bacon (1933)
– One Way Passage di Tay Garnett con William Powell e Kay Francis (1932)
– The Tramp di Chaplin
– Top Hat di Mark Sandrich con Fred Astaire e Ginger Rogers (1935)
Per le danze del secondo atto c’è un’incursione nelle pellicole anni Quaranta e Cinquanta.
I filmati del ventaglio, i cartelli statici, i giornali, ecc. sono stati realizzati appositamente per l’opera.