Se c’è un motivo di interesse ne La vita davanti a sé, oltre al ritorno di Sophia Loren davanti alla macchina da presa dopo 10 anni, è nella costruzione di un progetto, di un’idea produttiva che lo regge. Il film di Edoardo Ponti, disponibile su Netflix, è pensato per l’esportazione internazionale di un modello narrativo e cinematografico, e anche televisivo, attraverso il rilancio di una diva. È il film in quanto opera a non reggere l’ambizione.



La storia è tratta dal romanzo omonimo di Romain Gary, già portato al cinema nel ’77 da Moshe Mizrahi (vincendo l’Oscar per il film straniero): Madame Rosa è un’ex-prostituta ebrea, scampata all’Olocausto, che accudisce i figli delle colleghe. Un giorno però il suo medico le porta Momo, un ragazzo che ha in affido ma che non riesce a gestire: il rapporto tra i due, difficile e sincero, darà al ragazzo un motivo per crescere e diventare una persona per bene e alla donna un conforto quando la sua lucidità e la salute cominciano a venire meno.



Ponti assieme a Ugo Chiti prendono il romanzo e lo adattano con una certa intelligenza, cucendolo attorno alle esigenze divistiche di Loren (la sua predecessora nel ruolo, Simone Signoret, vinse tutti i premi possibili ed è chiaro che dietro il film c’è anche un obiettivo simile) e alla sua tempra, alla Bari dei bassifondi che ricorda Napoli e quindi anche al cinema di piccola criminalità congeniale a quei luoghi, al modello Rai integrato con tracce di Ferzan Ozpetek, come l’integrazione e l’inclusione sociale, razziale e sessuale nell’affresco.

Un progetto composito a cui la scrittura e la protagonista danno una certa unità e che proprio attraverso le libertà rispetto al testo di partenza afferma il suo potenziale, per esempio, nel ruolo dato ai bambini che permette al film di aprire toni e possibilità estetiche diverse (le apparizioni della leonessa), ma che appunto appaiono solo possibilità che Ponti non indaga fino in fondo, restando fedele al punto del film: lavorare sul pathos attraverso la sua protagonista.



E quindi La vita davanti a sé accoglie tutte le possibilità emotive che si trova davanti – politiche, sociali, culturali – e opera per far sì che il film diventi emozionante senza strappare le lacrime, giocando sui mezzi toni, su musiche e immagini mai invadenti, sul viso e sul corpo di Loren: peccato che Ponti non sappia trarre nerbo e vigore narrativo o emotivo da quei mezzi toni, che il suo film risulti a modo, compito, composto, magari buono per valicare i confini attraverso Netflix, ma senza ritmo, un po’ avvizzito.

Quindi, l’operazione in sé diventa – almeno dal punto di vista cinematografico – fuori tempo massimo, smaniosa di aprirsi al di fuori di sé (per esempio i begli intermezzi con Babak Karimi, il migliore del cast), ma che quando lo fa sembra fuori luogo, perché troppo attaccata al progetto di partenza come fosse una gabbia, più che una griglia. L’impegno della sua protagonista è indubbio, ma degno senz’altro di una causa migliore.