Lo scandalo Lafarge torna d’attualità in Francia con un documentario che racconta come mai prima d’ora il rapporto intrattenuto tra i servizi francesi, intelligence in testa, col colosso del cemento, l’ultima azienda rimasta in Siria dopo lo scoppio della guerra civile e la sanguinosa avanzata dei gruppi terroristici, che ha patteggiato 778 milioni di dollari per aver sostenuto l’Isis. Il documentario solleva il velo su questa collaborazione segreta. Firas Tlass, azionista siriano di Lafarge e ricercato dalla giustizia, ha deciso di parlare davanti alle telecamere dalla sua casa di Dubai delle missioni a partire dal gennaio 2015, di aver fornito una lista di gruppi jihadisti operanti nel Paese che ha consegnato ai servizi segreti francesi. Dal 2013 era anche l’intermediario per il pagamento delle tangenti ai posti di blocco controllati dallo Stato islamico per consentire ai camion di entrare e uscire dalla fabbrica: attraverso lui sarebbero passate le somme versate ai terroristi. Ma proprio in occasione dell’uscita del documentario, parla anche Bruno Lafont, ex CEO di Lafarge che ha guidato tra il 2007 e il 2015, quando il gruppo francese si è fuso con la svizzera Holcim.
Lafont, indagato per finanziamento di un’impresa terroristica e messa in pericolo dei dipendenti, attualmente occupa un posto nel consiglio di amministrazione di ArcelorMittal ancora per poche settimane ed è coinvolto in varie attività filantropiche. La sua posizione è a dir poco scomoda, perché oltre ad avere una gravissima causa penale, deve rispondere davanti al tribunale commerciale, insieme a una manciata di suoi ex dipendenti, dei “danni” causati dallo scandalo: il suo ex gruppo chiede in solido 200 milioni di euro ai suoi ex dirigenti. «Per me, il documentario dimostra che Lafarge in Siria e i suoi collaboratori erano infiltrati dai servizi francesi. L’ex direttore dell’intelligence militare afferma davanti alla telecamera che l’azienda era al servizio della Francia e che l’intelligence concreta e precisa che Lafarge era in grado di fornire alla Francia era di interesse superiore», dichiara Bruno Lafont a Libération.
LAFONT “LAFARGE INFILTRATA A MIA INSAPUTA”
Dunque, mette nero su bianco il coinvolgimento dello Stato francese. «Sembra che fosse perfettamente al corrente: per superare questi posti di blocco era necessario pagare». Ma sono tante le domande che non hanno ancora risposta: come è stato usato il senato che Lafarge ha versato a Tlass? Ha finanziato l’Isis con i fondi di Lafarge o con quelli forniti dai servizi segreti francesi? «I tribunali non hanno fornito una risposta a questa domanda. E nemmeno l’indagine privata commissionata da LafargeHolcim allo studio legale americano Baker McKenzie, dopo le prime rivelazioni della stampa nel 2016», dichiara Bruno Lafont, convinto che non si sia andati fino in fondo. Comunque, l’azienda ha ammesso di aver finanziato il terrorismo, accettando di pagare una maxi multa. «A mio avviso, si tratta di una grave violazione della presunzione di innocenza, tanto più che nessuno degli ex dirigenti di Lafarge è stato ascoltato nell’ambito dell’inchiesta statunitense. L’inchiesta è in corso in Francia e ritengo che il fatto di essersi dichiarati colpevoli, il fatto di aver comunicato all’epoca in barba ai dirigenti accusati e in barba alla ricerca della verità, sia estremamente dannoso e condannabile. Spero che l’esito del processo permetta a Holcim e alla sua controllata Lafarge di pentirsi di ciò che hanno fatto», attacca l’ex CEO del colosso del cemento. Dal canto suo, continua a ribadire la sua estraneità: «Se l’azienda è stata infiltrata, è stato a mia insaputa. Anche per questo sto cercando di capire perché non sapevo, perché ho ignorato i fatti di cui sono accusato finché un giorno, in una riunione, mi è stato detto di un possibile accordo con Daech. Era la fine di agosto 2014 e nel giro di un’ora decisi di chiudere ed evacuare la fabbrica. Ma fino ad allora non lo sapevo. È vero che, date le mie funzioni, ho avuto diversi incontri con alte autorità statali. Nessuno di loro mi ha mai parlato della Siria».
“NON SAPEVO DI SOLDI A GRUPPI TERRORISTICI”
Inoltre, non aveva mai ricevuto un allarme, ma una nota che però arrivò ad uno dei colleghi. Era del 2 marzo 2012 e la firmava il direttore dell’ufficio del ministro degli Esteri. «Faceva riferimento alla complicata situazione in Siria, rilevando anche la necessità di uno sforzo umanitario. La nostra fabbrica di Jalabiya stava dando un enorme contributo all’attività economica e alla sicurezza materiale dei dipendenti e di tutte le parti interessate». Ma è davvero difficile immaginare che il CEO di Lafarge non fosse al corrente di quanto stesse accadendo in una Siria dilaniata dalla guerra civile. «Non ho detto di non sapere cosa sta succedendo lì. Ho detto che non ero a conoscenza di pagamenti a gruppi terroristici e di attività statali nel nostro stabilimento. Naturalmente, ho ricevuto regolarmente rapporti su ciò che stava accadendo lì, ero particolarmente preoccupato per la sicurezza dei nostri dipendenti. Già nel luglio 2013 avevo detto al mio diretto collaboratore: “Se pensi che la fabbrica debba essere chiusa, non esitare a chiedermelo, la fabbrica sarà chiusa”», replica Bruno Lafont tramite i microfoni di Libération. Si smarca anche quando gli viene chiesto del pagamento ad Al-Nusra, allora affiliata ad Al-Qaeda: «In Lafarge esisteva un sistema di deleghe e ogni manager ne conosceva l’entità. È sulla base di questa delega che i miei diretti collaboratori potevano prendere le loro decisioni da soli o chiedere a me di farlo. Credo che all’epoca di cui lei parla l’area fosse controllata dai curdi. Quindi all’epoca non era un problema. Il problema si poneva quando la sicurezza della popolazione era minacciata. E quando, in effetti, c’era la possibilità di pagare gruppi terroristici».
“HOLCIM HA INTERESSE A CONDANNA LAFARGE?”
Non sa neppure perché i servizi segreti francesi avrebbero agito apertamente con alcuni dei suoi collaboratori e non con lui, ma sicuramente vuole che venga fatta luce sulla vicenda. «So solo che il giorno in cui ho saputo di un potenziale accordo con Daech, alla fine di agosto 2014, come ho detto prima, ho deciso immediatamente di chiudere lo stabilimento. E a quel tempo non sapevo che i servizi statali fossero coinvolti nella fabbrica». Se i tribunali stabiliranno che i servizi francesi hanno reclutato dipendenti per ottenere informazioni sul posto e sono stati informati di tutto, questo scagionerebbe Bruno Lafont da qualsiasi reato penale: «Non lo so, spero di sì. Per il momento, la cosa più importante per me è che sappiamo esattamente cosa è successo. Ci sono ancora molte domande senza risposta». Di fatto, Lafont non può contare sul sostegno del suo ex gruppo, visto che appunto è stato citato insieme ad altri dipendenti dell’epoca davanti al tribunale commerciale per ottenere un risarcimento per danni morali e finanziari e danni alla reputazione. «Ci si chiede se Holcim non abbia interesse alla condanna della sua filiale Lafarge e dei suoi dipendenti…», si limita a commentare l’ex CEO. Infine, nell’intervista a Libération evidenzia il fatto che la Francia da un lato ha sfruttato la situazione per ottenere informazioni che non poteva ottenere con i suoi mezzi, d’altra parte non si assume la responsabilità quando viene avviata un’indagine giudiziaria: «Non so se lo definirei schizofrenico, ma questo è il caso che lei descrive. L’azienda per cui ho lavorato per trentacinque anni, che ha sempre messo al primo posto la sicurezza di tutti i suoi dipendenti, sta affrontando accuse gravissime e assurde, dal finanziamento del terrorismo alla complicità in crimini contro l’umanità. Penso anche, ovviamente, ai miei ex colleghi».