“Dio, mio Dio, perché ti ho abbandonato? Non so più vedere le stelle”. È uno degli ultimi appunti trovati tra le carte dello svedese Pär Lagerkvist (1891-1974), poeta, drammaturgo, narratore, Premio Nobel del 1951 anche dopo il successo del suo Barabba (Jaca Book), “per il suo vigore artistico e per l’indipendenza del suo pensiero con cui cercò, nelle sue opere, di trovare risposte alle eterne domande che l’umanità affronta”.
Dio. L’abbandono. Le stelle: sono i temi ulceranti su cui Lagerkvist incentrò la tutta sua ricerca interiore e che lo rendono un classico adattissimo al nostro tempo così restio al silenzio e allo stupore dell’attesa.
La poesia di Lagerkvist è lucente come il cristallo. È essenziale come quella di Tomas Tranströmer (altro meritato Nobel nordico). È una continua ricognizione sul dolore (come Leopardi o la Dickinson). È spietatamente verticale come le migliori pagine di McCarthy o della Brontë di Cime tempestose. È violento e primordiale, come la California di Robinson Jeffers (altro autore che andrebbe prontamente riscoperto ripubblicando il suo poema Cawdor).
Per avere un’idea della nera intensità di Lagerkvist, basta aprire l’ouverture delle sue Poesie (uscirono nel 1969 per Rusconi per la curatela di Giacomo Oreglia e sono state ristampate da Guaraldi nel 1991 con prefazione di Mario Luzi):
L’angoscia, l’angoscia è la mia eredità,
la mia ferita alla gola,
il grido del mio cuore nel mondo.
Ora si rapprende la schiuma delle nubi
nella ruvida mano della notte,
ora s’alzano selve
e rigide alture
così aride verso la contratta
volta del cielo.
Come tutto è aspro,
come tutto è pietrificato, nero e immoto!
Io avanzo brancolando in questo spazio oscuro,
sento l’orlo tagliente delle rocce sotto le mie dita,
le mie mani tese al cielo lacero
a sangue contro ghiacciati brandelli di nubi…
Lagerkvist è un nuovo Giobbe, in cammino su una spiaggia livida e solitaria. Sembra il protagonista del Settimo sigillo di Bergman, incalzato dalla morte. Dietro di lui, “un bosco di sterpi dove gridano uccelli sanguinanti”, “alberi disseccati”, “rauche grida”, “alberi brulli”, “cadaveri d’uccelli”, una “distesa grigia di lebbra”.
Lagerkvist abita con Eliot una personalissima Terra desolata, e proprio sulle ceneri dell’Europa dilaniata dalla Grande guerra scriveva profeticamente nel Teatro Moderno, punti di vista e attacchi (1918):
“Il nostro tempo, con la sua mancanza di equilibrio, di unità, con la violenta espansione di forze contrarie, è un’epoca barocca, fantastica, molto più fantastica di quanto possa descriverla il naturalismo… La nostra epoca è torturata fin nelle sue radici da una lotta con sé stessa, come ben si vede nella superficie. Un caos, non una dissoluzione; un caos in via di concentrarsi in vista di qualche cosa che non si conosce ancora, ma su questa incertezza e su queste basi che oscillano si sta compiendo un lavoro di costruzione febbrile, temerario, come non accadde che in un mondo in gestazione…”.
Ma nonostante questo cupo assedio, il poeta non si arrende. È avvinto da una struggente nostalgia per un Dio che non trova e per il Creato, una nostalgia che ricorda la toccante Via Crucis di Mario Luzi. Scrive, per esempio, il poeta svedese:
E più bello quando scende la sera.
Tutto l’amore che il cielo abbraccia
è raccolto in un’ombra di luce
sulla terra,
sulle case della terra.
Tutto è dolcezza, tutto carezza di mani,
e remote rive occulta il Signore.
Tutto è vicino, tutto è lontano.
Tutto vien dato
come pegno all’uomo.
Tutto è mio, e tutto mi sarà tolto,
tra breve tutto mi sarà tolto.
Lagerkvist è un poeta arso dalla ricerca di Dio. Un cuore grande e torturato come Giovanni della Croce. Daniele Mencarelli, uno dei nostri più intensi narratori contemporanei (ma anche ottimo poeta) ci illumina a riguardo in modo decisivo: “Lagerkvist rappresenta la somma della poesia mistica del Novecento, una poesia che nasce in quella terra invisibile tra il nostro mondo e l’altro che ci attende, una poesia sospesa e innamorata. In tutto vive l’essenza di Dio, rimandata dentro forme e vite diverse, ma ovunque presente. Dalla conchiglia alle stelle, tutto si fa cellula divina”.
Ed è per questo che Lagerkvist torna ossessivamente a indagare il mistero dell’uomo. Volge gli occhi al cielo e trasforma il suo grido in un salmo vertiginoso. Che non si rassegna al buio, come il buon ladrone straziato sulla croce:
Tu che esistevi prima dei monti e delle nubi,
prima del mare e dei venti.
Tu il cui inizio è prima dell’inizio di ogni cosa
e la cui gioia e dolore sono più antichi delle stelle.
Tu che eternamente giovane vagasti sopra le vie lattee
e attraverso le grandi tenebre fra di esse.
Tu che eri solo prima della solitudine
e il cui cuore era colmo di angoscia molto prima
del cuore degli uomini,
non mi dimenticare.