Suona quantomeno fuori luogo rimarcare il fatto che Matteo Di Pietro, youtuber romano del gruppo Theborderline, sia stato trovato positivo ai cannabinoidi dopo l’incidente stradale capitato all’auto che stava guidando per le strade di Casal Palocco, tra la capitale e Ostia.
L’auto, un Suv Lamborghini noleggiato per una delle tante sfide web che il gruppo promuoveva in rete, ha travolto una piccola Smart su cui viaggiavano una donna e i suoi due figli di tre e di cinque anni. Il bimbo di cinque anni, Manuel, è morto, mentre la sorellina sta bene e la mamma è ricoverata in stato di choc.
Matteo, che ha vent’anni, insieme a tutto il gruppo di youtuber quasi coetanei che viaggiavano con lui riprendendone le imprese, sono stati fermati dalle forze dell’ordine: per gli amici nessuna indagine, per il ragazzo si fanno avanti pesanti capi di imputazione.
Ed è a questo punto della storia che suona fuori luogo la sottolineatura della positività del giovane guidatore ai cannabinoidi: è facile adesso gridare allo “youtuber fumato” quando nella stragrande maggioranza dei casi sono proprio gli adulti – genitori, artisti, politici o educatori – che incitano senza ritegno all’utilizzo delle sostanze denominate leggere. Niente come quelle sostanze promettono, insieme all’ebrezza di un istante di sregolatezza, di riempire il vuoto che attanaglia un’intera stagione della vita. Promettono pace, promettono quiete, promettono distanza da una realtà da cui molti giovani non si sentono accettati e che avvertono con dolore. Promettono, insomma, di sostituire quella protezione in cui li abbiamo cresciuti e che, ad un tratto, non c’è più.
Matteo, e molti dei compagni della sua generazione, vivono un premio di consolazione, vivono un conforto che non deriva dal toccare con mano che la vita è bella, che la vita è buona, che la vita è promessa. Essi vivono di un conforto che viene da una sostanza con cui giocano, magari senza averne coscienza, sotto l’ironico e legittimante sguardo di coloro che – al contrario – dovrebbero aiutarli a prendere in mano la propria esistenza.
Nessuno vuole mettere in discussione la vitalità della giovinezza, la sua fame di nuovo e la sua sete di vita, nemmeno la necessaria sfrontatezza che garantisce ad un ventenne di tentare imprese che ambiscono a superare quelle dei propri padri: quello che questa vicenda mette in discussione è la vita come gioco fine a sé stesso. Quando un gruppo di amici decide di emulare uno youtuber americano, proponendo sfide senza senso, al limite del rischio, solo per fare soldi, desiderando soltanto di costruire e alimentare una bolla autoreferenziale in cui tirar dentro le persone per evadere dalla realtà e indurli a spendere, allora il gioco diventa fuga, diventa arroganza, diventa prepotenza, si trasforma in violenta dipendenza. E la dipendenza aumenta a dismisura la distanza dalla realtà, dalle conseguenze reali delle azioni che compiamo, dalla percezione dei pericoli, dalla capacità di protezione che caratterizza qualunque ominide rispetto all’esporsi a situazioni potenzialmente dannose per sé stessi e per gli altri.
Quello di cui siamo spettatori da sessant’anni a questa parte, da quando il consumo ha occupato lo spazio del cuore destinato al senso, è l’alterazione di un meccanismo antropologico che usa il potere della tecnica per trasformare ogni capriccio in realtà, anziché servirsene per alimentare responsabilità. Se un tempo i nostri genitori ci lasciavano in uno spazio casalingo a sperimentare attraverso il gioco le diverse dimensioni della vita, oggi il parco giochi è diventata la città, quel mondo dove con 1500 euro possiamo noleggiare una Lamborghini e sfrecciare senza alcuna remora, senza sentirci interpellati da quello che facciamo, ma semplicemente smaniosi di realizzare l’impulso che abbiamo in testa, con adulti complici, pronti a offrirci un po’ di “fumo” per permetterci di giocare meglio.
In questa perversa dittatura dei desideri, in cui chiunque ha diritto a essere dittatore per qualche ora, i bambini sono le nuove vittime sacrificali, i nuovi danni collaterali, i nuovi campi di esperimento su cui possiamo tranquillamente esercitare il nostro dominio. Ai bambini imponiamo le nostre scelte, i nostri giochi, i nostri diritti, le nostre necessità, il nostro potere. Ai più deboli facciamo pagare il conto della nostra infelicità, della nostra solitudine, della nostra incapacità di essere responsabili.
La giustizia presto farà il suo corso e stabilirà esatte responsabilità in una storia ancora complessa da dipanare, ma nel frattempo Manuel – e tutti i Manuel della terra – cercano cuori, voci, persone che non li usino per qualche ideologia, ma che sappiano portare all’attenzione dell’opinione pubblica un concetto molto semplice: non c’è potere senza limite, non c’è desiderio senza responsabilità. Non ci possono essere canali YouTube senza regole. Non ci possono essere Lamborghini al servizio di chi può uccidere. Non ci può essere più indulgenza verso chi si sta fumando non un po’ d’erba, ma la connessione ultima con la realtà della vita.
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