Apre oggi al Lido – per concludersi sabato 7 settembre – la 76ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, diretta da Alberto Barbera e organizzata dalla Biennale presieduta da Paolo Baratta. Nel suo intervento di presentazione, Barbera precisa che «[a] nessun appuntamento festivaliero […] si può chiedere di dare risposte a interrogativi assai complessi come quelli che riguardano il futuro del cinema prossimo venturo. […] [N]on resta che puntare a una nuova concezione del sentire che si ponga in sintonia con i tempi. Non più dunque una definizione rigida e univoca di che cosa è cinema e cosa non lo è […], ma una libera e avventurosa disponibilità a mettersi in mare senza necessariamente conoscere la meta del viaggio». Una metafora, quest’ultima, che ci sembra bene introdurre anche i 25 anni di Lamerica di Gianni Amelio, presentato in Concorso nel settembre 1994 e allora ignorato dalla giuria presieduta da David Lynch (che gli conferì un premio di consolazione, l’Osella d’oro per la migliore regia).
La trama si svolge nell’Albania del 1991, dove i faccendieri italiani Fiore e Gino, due soci in malaffare, sono giunti alla ricerca di facili guadagni in un Paese in preda al caos dopo il crollo del regime comunista. Al secondo, infine abbandonato al suo destino dal primo, non resta che tentare in tutti i modi di rientrare in patria con Spiro/Michele, un (connazionale) ex soldato e disertore, che ha perso la memoria e crede di vivere ancora nell’Italia del Secondo dopoguerra, quando i nostri emigranti vedevano “Lamerica” come la terra promessa. Come rileva Morando Morandini, «[d]i solito si raccontano storie di ieri per parlare dell’oggi. Amelio ribalta genialmente lo schema. […] Appartiene a quella categoria di film imperfetti che contano più di quelli riusciti, almeno per chi li ha fatti».
Per cogliere appieno il valore di tale giudizio, occorre fare un breve cenno biografico al regista, Gianni Amelio, che nasce il 20 gennaio 1945 nella frazione di San Pietro del comune di Magisano (Catanzaro) da due giovanissimi genitori: il padre ha infatti diciassette anni, la madre solo quindici. Di lì a poco, il primo va in Argentina, lasciando moglie e figlio, alla ricerca del proprio padre che, partito quindici anni prima, non ha più dato notizie. Anche lui finisce però per “sparire” nel Paese sudamericano: si ripresenta quindici anni dopo, quando Amelio, povero tra poveri, allevato da sole donne – la nonna paterna, quella materna e la madre (anagraficamente quasi una sorella) -, è ormai un adolescente cresciuto in assenza di una figura paterna che si rivela adesso estranea alle necessità – non solo materiali – del figlio, nel frattempo emerse grazie all’aver potuto frequentare le scuole elementari e medie.
Stando allo stesso regista, «[q]uando gli albanesi sono arrivati a Bari e la televisione ha mostrato la loro nave, ho avuto l’impressione di vedere di nuovo mio padre, mio zio, tutti i miei parenti che stavano ritornando… E a questo punto, dopo aver a lungo accarezzata l’idea di fare un film su mio padre, ho subito cercato di capire il motivo per cui questi vicini – l’Albania è a sessanta miglia marine dall’Italia – erano venuti qua». Come se già non bastasse il doloroso retroterra personale e il drammatico spunto d’attualità iniziale, quella di Lamerica risulta purtroppo essere una vicenda produttiva alquanto travagliata: riprese effettuate nell’arco di ben quattordici settimane con parecchi spostamenti tra Tirana, le montagne del Nord, Roma e Durazzo; lavorazione spesso interrotta da malattie e intoppi burocratici; montaggio tutt’altro che semplice del materiale girato; finale modificato dopo la prima proiezione pubblica con taglio di circa quindici minuti per volontà del regista medesimo…
Alberto Cattini, nel suo “Le storie e lo sguardo. Il cinema di Gianni Amelio”, scrive: «Lamerica è un film sull’Italia raccontato attraverso l’Albania. Ancora: è un film su due Italie – quella dell’immediato dopoguerra e quella degli sciagurati anni Ottanta – riassunte e fatte rivivere attraverso i ricorsi della Storia, che sotto altre forme si ripete in un altrove dimenticato ma non distante, rimosso ma non estraneo». Ecco perché si tratta anche oggi di una pellicola che non smette di parlare, di un racconto che non finisce di interrogare, di un’opera che – per dirla con il critico statunitense Michael Wilmington (“Chicago Tribune”, 24 dicembre 1995) – «alla fine della proiezione ricorderemo […] con l’intensità che riserviamo al nostro vissuto personale. […] Lamerica […] non ci allontana dalla vita, come avviene nella maggioranza dei casi. Per contro, ci immerge profondamente nel flusso delle cose che ci circondano». Un film sfortunatamente ancora attualissimo e certamente da rivedere.