Tra gli aspetti negativi dell’autonomia differenziata tra le regioni, si afferma da più parti, ci sarà quello di rendere l’Italia simile all’abito di Arlecchino: con tante tessere l’una diversa dall’altra, tenute insieme dallo spago. Si alimenterà la frammentazione, è il rischio, rendendo l’intero corpo nazionale più difficile da tenere unito e governare. Con questo elevando al massimo grado la confusione che già serpeggia all’interno di un Paese che tanto unito non lo è stato mai.
Dunque, ci troveremmo di fronte a una miriade di leggi, regolamenti e interpretazioni differenti tra di loro e tali da far impazzire chiunque avesse interessi in più parti dovendo sottostare a regole diverse a seconda dei territori. Una prospettiva che, a parte le conseguenze pratiche per chi dovrà sbrigarsela con questa eterogeneità, contrasta con l’aspirazione ad accrescere il senso di comunità da cui scaturisce, per esempio, l’uso dell’euro nel Vecchio continente. Con una complicazione in più: lo Stivale tornerebbe a essere diviso in tre macroaree ciascuna rappresentativa di una diversa propensione ad accogliere e fare propria l’opportunità che la Costituzione concede e il Parlamento dopo diversi tentativi, non tutti fortunati, sta cercando di rendere possibile.
Non volendo – e sapendo – addentrarci troppo negli aspetti tecnici della vicenda, appare chiaro che le preoccupazioni superano i buoni presentimenti.
In particolare, è stato fatto notare, potremo avere un Nord dove si tenterà di conquistare la maggiore autonomia possibile con il trasferimento alle singole regioni di tutte o quasi le funzioni delegabili, un Centro che probabilmente chiederà e otterrà un limitato per quanto significativo numero di attribuzioni e un Sud che al contrario sarà molto tiepido nei confronti del prospettato cambiamento, restando più o meno nelle condizioni in cui si trova oggi.
Vivacità, moderazione, rassegnazione a seconda del parallelo. E non solo. Se in alto vincerà la diversificazione, in basso crescerà la pulsione all’uniformità sulla spinta della Zes unica, la grande Zona economica speciale che riguarderà tutto il Mezzogiorno con la fusione delle otto nate con il compito di attirare investimenti in luoghi particolarmente depressi. Da una parte si diversifica, dall’altra si uniforma. Rendendo più caotica la comprensione e la guida del Paese.
A ben pensarci, tuttavia, non si tratta di una novità assoluta. Già con la Cassa per il Mezzogiorno – esaltata, vituperata, di nuovo esaltata – le regioni meridionali vivevano in un regime economico, con risvolti politici, assai differente da quelli adottati al Centro e nel Settentrione. Un regime che ha funzionato finché non sono nate le Regioni e l’intervento straordinario non ha perso di possenza a discapito di tanti piccoli e forse inutili interventi ordinari.
E non è finita qui, perché per circa mille anni il Mezzogiorno è stato guidato da un Regno perlopiù unitario – di Napoli, di Sicilia, delle Due Sicilie – mentre al Nord fiorivano principati e ducati e all’interno di questi i municipi. Il tutto con la fascia di rispetto del Centro occupato dallo Stato Vaticano a mo’ di cuscinetto. Chi volesse prendersi il gusto di colorare i venti spazi che formano il Paese si accorgerebbe che la probabile mappa di domani somiglia a quella dell’altro ieri.
Si tratta naturalmente di una ipersemplificazione di sapore giornalistico. Che tuttavia cavalca un’onda lunga, un megatrend come direbbero gli studiosi, che conferma la resistenza dei meridionali a organizzarsi, ad autoregolarsi, a usare con profitto i margini di libertà comunque e dovunque dovessero manifestarsi. Che si tratti di sfiducia in se stessi o nei confronti degli interlocutori, vissuti come controparti, le riforme sono considerate sempre con sospetto.
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