Oltre al costo dell’energia, che comprensibilmente sta monopolizzando l’attenzione dei mercati, altre emergenze stanno condizionando la congiuntura alla vigilia di un autunno rovente.

Tra queste figura, quasi a sorpresa, la frana dei bond scivolati ai minimi degli ultimi sei anni a fronte dei forti rialzi dei rendimenti innescati dalle banche centrali, Fed in testa, per contrastare l’inflazione. Un rialzo violento, sorprendente nei toni, che ha provocato forti perdite nei portafogli degli investitori istituzionali e dei fondi pensione: il super indice dei bond di tutto il mondo, il Bloomberg Global Aggregate Total Return, ha registrato un calo superiore al 20% dai massimi del 2021. Una discesa simile non si vedeva dal 1990.



Le conseguenze? Basti citare le parole di una vecchia volpe dei desk delle sale operative, Stephen Miller, trader con quarant’anni di esperienza sui desk ora consulente della canadese GSFM: “Credo che siamo alla fine del trend secolare iniziato negli anni Ottanta”.

La caduta di valore delle obbligazioni (inversamente proporzionale all’ascesa dei rendimenti) è l’effetto consapevole della svolta della politica della Federal Reserve americana che, con l’eccezione del Giappone, ha trascinato dietro a sé gli altri banchieri. Una svolta clamorosa nei tempi e nei modi che non ha convinto molti operatori.



Un anno fa, a Jackson Hole, Jerome Powell aveva rassicurato i mercati sulla natura transitoria dell’inflazione. Pochi giorni dopo, anzi, il board della banca centrale aveva confermato un’iniezione di 120 miliardi al mese sui mercati per garantire la necessaria liquidità ai listini azionari. Ma è l’esatto opposto di quanto sostenuto pochi giorni fa nel simposio della banca centrale dallo stesso Powell: la crescita dei prezzi, ha detto, non è più un problema transitorio, ma la minaccia più seria per le economie. La banca centrale perciò deve stroncare al più presto il carovita, senza preoccuparsi dei “danni collaterali”, cioè la probabile recessione.



Un cambio di rotta quasi improvviso che ha fortemente minato la credibilità della Fed e, di riflesso, delle altre banche centrali che si sono accodate alla svolta della banca Usa.

Che cosa ha spinto Powell a cambiare idea in modo così clamoroso? Forse, la spiegazione più convincente sta nelle condizioni del mercato del lavoro, troppo forte a detta della banca centrale nonostante milioni di americani, grazie ai sostegni pubblici incamerati nei giorni del Covid, abbiano voltato le spalle all’impiego “sicuro”: meglio abbinare lavori saltuari (magari presso Amazon), indennità varie e tentare la fortuna sul mercato azionario piuttosto che tornare alle vecchie mansioni.

Intanto l’America riscopre il sindacato, come sta avvenendo anche presso i colossi della new economy, Apple in testa. La Fed ammette di volere un aumento di mezzo punto percentuale dei disoccupati con l’obiettivo di ridurre le pretese dei dipendenti: avendo meno offerte, ragiona la Fed, i lavoratori avrebbero anche minore forza per chiedere miglioramenti salariali quando cambiano azienda. Insomma, la Fed ritiene che un po’ di sana paura possa proteggere il sistema dal miraggio della finanza facile, possibile conseguenza del post Covid superato grazie ai sostegni elargiti dagli Stati.

L’Europa, nel frattempo, è piombata in un’altra crisi, non meno drammatica: la guerra ucraina ha ribaltato la politica energetica del Vecchio Continente.

Basta questo a spiegare l’inflazione europea? E’ davvero tutta colpa della chiusura dei rubinetti da parte di Putin? In realtà, per più di un anno la Bce ha negato l’evidenza e ha sostenuto che l’inflazione sarebbe scesa rapidamente sotto il 2% e ha così ha mantenuto i tassi sotto zero fino al 20 luglio. Intanto saliva la pressione sui salari, specie in Germania dove, a partire da Lufthansa, le imprese sono state costrette ad accettare aumenti del costo del lavoro anche a doppia cifra.

Anche in Europa, insomma, la politica dei tassi bassi si è tradotta in inflazione salariale. Un problema che, purtroppo, non potrà essere risolto manovrando la leva dei tassi. A differenza che negli Usa, forti dell’indipendenza energetica. Più che agire sul costo del denaro (con il rischio di essere costretti a cambiar rotta per l’arrivo della recessione), l’Europa, che non ha materie prime e ha finora un modello di sviluppo basato sulle esportazioni, dovrà semmai cambiare mentalità e strategie: più intervento pubblico, meno potere dei consumatori. Più intervento pubblico e nazionalizzazioni, specie nei settori in crisi e con un rilancio massiccio degli investimenti pubblici e pubblico-privati. Già si vedono i primi esempi nell’industria della difesa e dei semiconduttori.

E’ questo il tema conduttore di un autunno che promette di essere caldo, al di là delle emergenze politiche di casa nostra.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI