Una recente indagine Inapp-plus ha esaminato la situazione dei lavoratori delle piattaforme in Italia. In tutto in Italia sono 570.521, l’1,3% della popolazione tra i 18 e i 74 anni. Due terzi lavorano per piattaforme location-based, in cui i compiti assegnati vengono svolti in una località specifica, mentre un terzo svolge attività rese solamente sul web. Sette lavoratori su dieci hanno un contratto scritto e l’11% ha un contratto da dipendente. La valutazione sull’attività dei lavoratori è in base al numero di incarichi portati a termine (59,2% dei casi) e al giudizio dei clienti (42,1%). Una valutazione negativa o una mancata disponibilità nello svolgimento degli incarichi comporta un peggioramento della qualità degli incarichi, con la riduzione soprattutto di quelli più redditizi o con il peggioramento degli orari di lavoro. La quota dei lavoratori che dichiarano essenziale o importante il reddito derivante dal lavoro su piattaforma sale dal 49% rilevato nel 2018 all’80% del 2021 e circa la metà degli intervistati dichiara di aver scelto di lavorare con la piattaforma in assenza di altre possibilità di lavoro.



Le analisi presentate forniscono un quadro dettagliato delle condizioni e delle caratteristiche del lavoro su piattaforma in tutte le sue diverse manifestazioni. In particolare, viene evidenziata in più occasioni la centralità dell’algoritmo nel coordinare e valutare la prestazione lavorativa, arrivando perfino, in alcuni casi, alla possibilità di escludere totalmente il lavoratore dall’accesso alla piattaforma. Si evidenzia, pertanto, come per un numero consistente di lavoratori delle piattaforme sembrino presentarsi quelle condizioni che la Commissione europea, nella recente proposta di direttiva – finalizzata a garantire una completa ed equa definizione delle condizioni di lavoro, della rappresentanza collettiva, dei diritti di sicurezza sociale e della posizione fiscale dei lavoratori delle piattaforme – ha indicato come elementi fondamentali per una corretta determinazione dello status occupazionale: non lavoro autonomo, ma lavoro dipendente, con tutte le tutele e diritti a esso collegati.



Infine, lo scenario descritto sembra restituirci, con nettezza, una visione del lavoro su piattaforma lontano da stereotipi o facili narrazioni, che rappresentano un lavoro libero, indipendente e creativo tipico della sharing economy. Si configura invece come una forma di lavoro fortemente controllata, svolta nei tempi e nei modi stabiliti dalla piattaforma, per molti l’unica scelta in assenza di alternative occupazionali, pagata spesso a cottimo e il cui guadagno risulta importante per chi lo esercita. Un lavoro prevalentemente povero, quindi, paradigmatico della sempre più ampia diffusione anche in Italia del fenomeno della gig economy.



Dall’altro credo che andando più a fondo della semplice lettura dei dati, che per natura sono esemplificativi e mai esaustivi per una conoscenza completa della realtà, dobbiamo anche iniziare a domandarci che ruolo rivestono queste attività per le vite dei lavoratori coinvolti. Perché il 60% la considera una attività secondaria od occasionale, mentre per il 40% è un’attività principale. Attenzione, però, quella è l’attività principale in quel particolare momento storico della vita di quella persona, non è l’attività principale in termini assoluti. Questo per dire che queste attività, anche per coloro che dichiarano questa esperienza lavorativa come principale, in realtà ha un forte elemento di temporaneità, perché sono lavori che vengono (o che dovrebbero) essere sempre intesi come opportunità, dal rider – nessuno pensa di fare il rider per tutta la vita, infatti lo scopo della maggioranza di questi lavoratori non è avere un contratto a tempo indeterminato, ma massimizzare i propri guadagni e sfruttare questa esperienza per cercare nel mentre un nuovo lavoro – così anche per il più classico dei traduttori sul web – la piattaforma gli consente di reperire facilmente del lavoro, in attesa di avere un flusso di lavoro più costante o maggiormente remunerativo.

La forte propensione alla temporaneità si scontra poi con il corretto inquadramento contrattuale che queste figure dovrebbero avere. In queste sede sollevo una mera questione di metodo, ovvero che non esiste una risposta semplice per un problema articolato, pertanto, che ne dica la Commissione europea, la strada da seguire non è “lavoro subordinato per tutti”, ma piuttosto “tutele adeguate per tutti”: questo impone uno sforzo di pensiero e analisi per una rinnovata azione contrattuale, in grado di non snaturare un’attività lavorativa, ma allo stesso tempo ritradurre e rendere esigibili determinate garanzie e sicurezze per i lavoratori.

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