Come si chiama quell’isola che, bennatianamente parlando, c’è ma che nessuno vede, e nella quale coloro che vogliono non possono e coloro che possono non vogliono? Un aiutino: è un Bel Paese. Ancora niente? Allora un altro aiutino: è un posto dove quando si decide qualcosa è perché si è deciso di rinviare. Sempre senza risposta? Non affannatevi: ve lo diciamo noi. È questa bella Italia, e stiamo parlando del suo mercato del lavoro.



La notizia è che mentre la gente perde il posto e chiudono le imprese, l’Associazione delle agenzie per il lavoro (quelle private) fa l’elenco delle professionalità di cui le imprese hanno bisogno. E salta fuori che appunto la gente studia cose che le imprese non vogliono e le imprese vorrebbero giovani preparati in materie che nessuno sembra desiderare di conoscere. Insomma, si potrebbe pensare di essere in un Paese nel quale troppi ipovedenti siedono sulle spalle di altrettanti ipoudenti e pretendono di dirigerne i passi!



D’altronde mia nonna, che era italo-francese e aveva fatto la terza elementare, soleva raccontarmi che chi sa fa e chi non sa insegna. Ma questa era sapienza non dotta, cioè “solo” una sapienza esperta (in quanto esperienza di primo livello rispetto a chi studia e basta). Sarà per questo che i soloni nostrani, quelli che discettano di mercato del lavoro, normalmente il lavoro lo conoscono o dai libri o da qualche cattedra universitaria o di una Fondazione. Difficilmente da dietro un tornio a controllo numerico o da un trattore.

D’altronde questo Paese soffre di una pecca che è anche il suo problema più profondo, una pecca che, diciamolo da non salviniani quali siamo, ci portiamo dietro da decenni di marxismo malinteso (o, forse, “troppo” beninteso). Corre vincente tra noi, infatti, un giudizio sul lavoro non intellettuale come di una condanna, una specie di incommensurabile disgrazia alla quale Adamo ci dannò. Se il lavoro è merce allora non può esserci del buono in esso. Noi invece stiamo con papa Francesco e con la Laborem exercens: il lavoro è lo strumento con cui Dio ci ha affidato il completamento dell’opera Sua. Lui ha finito dopo sei giorni: dall’ottavo (perché il settimo l’ha destinato al riposo), tocca a noi.



Senza cambiare la nostra mentalità rischiamo di andare a fondo qualunque sia la strada che sceglieremo. In questo Bel Paese, d’altronde, ci siamo inventati di tutto per trovare un lavoro (agli altri, of course), compresi Enti per il Lavoro che nei migliori casi hanno lavorato a singhiozzo (le Agenzie, beninteso…), e che in tanti casi sono serviti a parcheggiare qualcuno in attesa di tempi migliori. Abbiamo approvato leggi talmente belle che financo i loro autori si stanno ancora affannando a farne esegesi profonde: al confronto commentare la metafisica agostiniana e spiegare i rapporti interni alla Trinità sembrano esercizi puerili.

Abbiamo messo in piedi intere catene di Sant’Antonio (e le abbiamo battezzate Navigator), che hanno portato ingenti utili (politici, neh, signori magistrati!), solo a chi ha avuto quella geniale intuizione. I redditi di cittadinanza sono diventate pensioni “sine cura” ma boia che qualcuno abbia trovato un lavoro. E chi lo dice? Risponderebbe qualche lettore, se ce ne fosse uno.

Beh, lo dicono gli stessi centri nei quali i Navigator navigano (presumibilmente su internet), e che devono vedere davvero poca gente, se hanno richiesto un finanziamento di qualche miliardo di euro per rendere i centri stessi più “appetibili” ai disoccupati e non limitarne invece gli usufruttuari alle sole persone con disabilità che, per legge e per sfortuna, sono le sole obbligate a passare di lì. Ma di questo già dicemmo la volta scorsa. Veniamo dunque a noi.

Le imprese, secondo quanto scrive la suddetta Assolavoro, hanno bisogno di infermieri qualificati, medici, tecnici di laboratorio, software engineer e java software engineer, analisti software, sistemisti e tecnici di rete, onsite manager, responsabili di vendite, tecnici commerciali estero/export manager. Eh, mormorerebbe sempre il solito criticone: e come pensi di formare in qualche mese un ingegnere o un medico?

Qui vi volevo: ammettiamo pure, perché perfino i Soloni degli Uffici di Collocamento nostrani questo lo sanno, che per formare un medico ci vogliono 10 anni e che per un ingegnere di livello, ne servono almeno 3 o 5, ma, ci chiediamo noi, gli Enti pubblici di cui sopra non dovrebbero anche orientare le scelte del presente in vista del mercato del domani? Perché per la politica dell’oggi per l’oggi bastiamo noi e la nostra biblica ignoranza!

E ammettiamo pure che lorsignori non fossero tra quelli che cinque/dieci anni fa lessero quelle indagini da cui pure si desumeva, ce ne ricordiamo bene, che nel decennio successivo si sarebbero creati posti di lavoro nei settori informatici, nel comparto medico e in quello del commercio estero: ma per immaginarlo non servivano studiosi di alto livello. Epperò in un Paese nel quale chi deve decidere fa grandi analisi, e gli analisti si propongono di prendere il posto dei politici sulla base del fatto che nessuno anatomizza i problemi bene come loro, non stupisce che a cadenze regolari una parte dica che si doveva fare e l’altra che si sarebbe dovuto fare. Ognun poi lo dice a seconda, ovviamente, dei suoi livelli di confidence (disinvoltura), con il condizionale e con la consecutio temporum. Che si spera siano migliori della loro confidence con il mercato del lavoro.

Certo: orientare i giovani, indirizzarne i desideri e formarne le competenze, non è cosa da poco. Si tratta di aver a che fare con un complesso sistema, un’organizzazione che tenga conto di numerosi fattori. E che parte dalla scuola. Non perché alla scuola spetti dire a ognuno quel che egli dovrà fare nella vita (operazione delicata e difficile), quanto perché si tratta di pensare alla formazione integrale di ogni individuo: integrale e non ideologica. Abbandonando l’idea che i lavori manuali o tecnici siano di secondo livello, meno belli e impegnativi di quelli “intellettuali”. Ovvero che una laurea è per tutti purchessia laurea: no, una laurea corrisponde alla felicità di ognuno solo nella misura in cui essa incontra i suoi desideri e lo garantisca anche nella brama che ha di partecipare alla costruzione del mondo attraverso il suo lavoro.

Così, giusto per non dare l’idea che anche noi si stia platoneggiando, facendo analisi e basta: se provassimo a dare un’occhiata a come hanno affrontato e risolto la questione in Germania o in Francia? Assicuriamo incliti e indotti tanto quanto dotti e sapienti, che il cuore del sistema tedesco, quel quid che rende i loro prodotti, a partire dai macchinari di tanti settori, un tantino più richiesti di quant’altri, risiede nel loro sistema formativo.

Ohibò, sussurra il mono-lettore di cui disponiamo, quel che abbiamo detto non vale mica per ogni attività: anche noi italica gente abbiamo settori in cui eccelliamo, che generano ricchezza e posti di lavoro. Ma appunto essi funzionano come una filiera: in dialogo costante con il mondo del lavoro, le scuole orientano le proprie offerte sull’oggi e molto più e meglio, sul domani; gli studenti sanno che lì, da lì, usciranno con una preparazione definita, adeguata non solo al mercato del lavoro di ieri, ma anche a quello del futuro. Qualche esempio? Siamo (congiuntivo esortativo con valore imperativo) campanilistici: il Setificio Paolo Carcano di Como (che prepara dai chimici ai tecnici del tessuto). Scuola pubblica, che lavora in stretta relazione con una Fondazione privata e finanziata dagli industriali comaschi.

Ma potremmo citarne tanti altri: perché il mercato del lavoro da noi funziona come tutto il resto del sistema Italia, vale a dire a seconda delle latitudini e delle longitudini, dei percorsi climatici e degli orientamenti ideologici di chi si trova a occuparsene. La nostra bussola organizzativa è l’istinto!

Ma torniamo ai lavori che sono richiesti dalle imprese. Lasciamo perdere quelle occupazioni che Assolavoro definisce a media complessità (come le badanti). Ma cosa affermare se i profili sono quelli di addetti allo stampaggio/presse/lavorazione delle lamiere; saldatori; tornitori, tagliatori e cucitori, tintori, stiraggio, verniciatori di mobili, carpentieri, muratori, autisti e corrieri? Sono lavori che richiedono formazione, certo, ma si tratta di formazione meno impegnativa (pur se solo in termini cronologici) di quella di un medico: eppure sono lavori che generano occupazione, che sono richiesti; hanno un mercato. E dai quali la storia ci dice che nacquero tanto il tessuto piccolo imprenditoriale/artigiano che fece la fortuna di tanta parte dell’Italia, quanto quelle competenze tecnico professionali che hanno generato la ricchezza germanica.

In alternativa potremo sempre continuare a creare esperti in scienze della comunicazione o eserciti di giuristi. Con la certezza, ed è il nostro incubo peggiore, che in futuro qualcuno in vena di tirar a campare purchessia, potrà pensare di cavarsela proponendosi come componente di una coppia simile a quella formata dall’inossidabile duo Giuseppe Conte/Rocco Casalino.