Dalle misure varate dal Governo in questo periodo di emergenza sanitaria internazionale a sostegno di aziende e lavoratori è rimasto inspiegabilmente escluso, almeno sino a questo momento, il settore produttivo/assistenziale del lavoro domestico. Non si tratta di una trascuratezza da poco, se si considera che il settore domestico occupa complessivamente circa due milioni di lavoratori (tra regolari e in nero), coinvolge (quantomeno) un pari numero di famiglie e produce circa 18,8 miliardi di euro annui di valore aggiunto, pari all’1,2% del Pil italiano.
Quello domestico è a tutti gli effetti un rapporto di lavoro subordinato regolato dal codice civile (artt. 2240-2246), dalla legge (L. n. 339/1958) e dalla contrattazione collettiva. Secondo il recetto insegnamento della Cassazione, la natura subordinata del rapporto di lavoro domestico è insita nell’attività stessa, “salvo la dimostrazione di un diverso tipo di rapporto istituito affectionis vel benevolentiae” che può sussistere quando la prestazione viene resa in ambito familiare o in presenza di un “vincolo di solidarietà e affettività sfociato in una comunanza di vita e di interessi che abbia implicato altresì la partecipazione di uno dei conviventi alla vita ed alle risorse dell’altro” (Cass. 11.7.2017, n. 17093).
Secondo i dati dell’Osservatorio sui Lavoratori Domestici pubblicati dall’Inps, nel 2018 i lavoratori domestici (colf e badanti) regolari ammontavano in Italia a 859.233. Il Rapporto Annuale sul Lavoro Domestico 2019 pubblicato da Domina (Associazione Nazionale Famiglie Datori di Lavoro Domestico) ha tuttavia calcolato che nel nostro Paese il 58% dei lavoratori domestici (circa 1,2 milioni di lavoratori) non sia in regola e che il numero complessivo dei lavoratori del settore ammonti a circa 2.000.000. È stato altresì stimato che per pagare i lavoratori domestici le famiglie italiane spendano circa 6,9 miliardi all’anno e che dal 2008 al 2017 il numero di lavoratori domestici (soprattutto i lavoratori che si occupano di assistenza degli anziani, le c.d. badanti) sia aumentato sull’intero territorio nazionale del 26% e aumenterà di un ulteriore 10% nei prossimi cinque anni.
L’importanza sociale ed economica del settore è stata riconosciuta anche dal Governo che nel Dpcm del 22 marzo 2020 ha inserito il lavoro domestico (codice Ateco 97) tra le “attività essenziali” escluse dal provvedimento di lockdown. A fronte di tale attestazione, ancora oggi, a distanza di due mesi dall’esplosione dell’emergenza, il lavoro domestico rimane privo di sostegno da parte del Governo, il quale si è limitato a prevedere il differimento al 10/06/2020 del termine ultimo di versamento dei contributi per il primo trimestre dell’anno (cfr. art. 37 del DL 18/2020) e, per i genitori con figli di età inferiore ai 12 anni, la possibilità di fruire di un bonus per i servizi di baby-sitting del valore complessivo di euro 600 per far fronte al periodo di chiusura scolastica (iniziata ai primi marzo) (cfr. art. 23, comma 8 del medesimo Decreto).
Sebbene il Governo abbia più volte annunciato misure specifiche anche per il lavoro domestico (espressamente escluso dalla Cassa integrazione in deroga dall’art. 22, comma 2 del DL 18/2020), sinora la gestione dei rapporti di lavoro è stata lasciata nelle mani delle singole famiglie e dei lavoratori, che si sono fatti carico (in termini di sacrificio economico e di gestione) di un settore socialmente ed economicamente strategico, ma, evidentemente, non rientrante tra le priorità del Governo.
Nella maggioranza dei casi, le parti sono addivenute ad accordi scritti che, come consigliato per motivi di sicurezza dalla maggior parte delle Associazioni di Categoria, hanno previsto la “sospensione” della prestazione lavorativa per un periodo di tempo predeterminato ovvero indeterminato in attesa degli sviluppi dell’emergenza Covid-19. A fronte della sospensione della prestazione lavorativa è stata legittimamente pattuita: a) la corresponsione del trattamento retributivo e la fruizione da parte del lavoratore di un periodo di ferie (opportuna nel caso di cospicuo accumulo di un monte ferie non godute, ma in ogni caso possibile anche con l’anticipo delle ferie ancora maturande) ovvero il recupero (se compatibile con l’orario giornaliero e/o settimanale del lavoratore) delle ore non lavorate in un periodo successivo; b) in alternativa, la sospensione del trattamento retributivo e la fruizione di un periodo di aspettativa non retribuita. Nei casi in cui non sia stato possibile raggiungere un accordo tra le parti, il datore di lavoro ha comunque mantenuto il diritto di collocare in ferie il lavoratore (salvo, poi, determinare il trattamento relativo alle giornate fruite in eccedenza rispetto al periodo di ferie maturate).
Per le famiglie che nel corso del periodo di lockdown non hanno voluto o potuto fare a meno della prestazione lavorativa del dipendente (ad esempio, per la necessità di assicurare assistenza alle persone non autosufficienti) non è stato necessario formalizzare alcun accordo, in considerazione del ricordato inserimento del lavoro domestico tra le attività essenziali non soggette, secondo il Dpcm 22 marzo 2020, a sospensione nel periodo di emergenza. Peraltro, la necessità per il lavoratore domestico di munirsi di apposita dichiarazione del datore di lavoro per giustificare le esigenze lavorative e raggiungere il luogo di lavoro ha fatto esplodere il problema del lavoro irregolare, al punto da indurre alcune Associazioni di Categoria a richiedere una apposita sanatoria.
L’esclusione del lavoro domestico dal temporaneo divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sancito dall’art. 46 del DL 18/2020 per il periodo di sessanta giorni decorrenti dal 17/03/2020 (divieto suscettibile, secondo le indiscrezioni, di essere ulteriormente prorogato dal prossimo Decreto del Governo) e l’assenza di misure di sostegno alle famiglie hanno comportato nel mese di aprile 2020 un incremento significativo di licenziamenti di lavoratori domestici rispetto al medesimo mese dell’anno 2019, secondo alcuni osservatori addirittura quantificabile nella misura del 30%.
In caso di licenziamento, il lavoratore domestico ha comunque diritto al preavviso in misura variabile in funzione dell’orario di lavoro e dell’anzianità di servizio. Nel caso in cui sia in possesso dei requisiti di anzianità contributiva stabiliti dalla legge, il lavoratore domestico ha diritto altresì alla Naspi; al riguardo l’art. 33 del D.L. 18/2020 ha stabilito un ampliamento dei termini di presentazione della domanda da 68 a 120 giorni. I lavoratori domestici sono rimasti invece esclusi di fatto dal “Fondo per il reddito di ultima istanza a favore dei lavoratori danneggiati dal virus Covid -19” istituito dall’art. 44 del DL 18/2020.
Un capitolo a parte merita il tema spinoso delle misure di sicurezza necessarie per garantire la salute sia dei lavoratori che delle famiglie che sarà affrontato prossimamente, in attesa dell’imminente provvedimento del Governo che dovrebbe contenere misure specifiche per il lavoro domestico.
(1- continua)