Ogni persona, non solo i giovani quindi, merita opportunità “permanenti” per aggiornarsi e acquisire nuove competenze per migliorare la propria vita lavorativa. Ciò vale in particolare, se non di più, per chi ha bassi livelli di competenze. Un gruppo sociale questo che, secondo le stime, rappresenta quasi la metà della popolazione degli Stati membri dell’Unione europea.
Gli adulti poco qualificati spesso accumulano numerose vulnerabilità e sono i più lontani dal mercato del lavoro o svolgono lavori precari e a rischio disoccupazione e che, meno degli altri, beneficiano delle possibili opportunità di miglioramento e riqualificazione.
In questo quadro si inserisce la raccomandazione europea del 2016 sui percorsi di miglioramento delle competenze con la quale si incoraggiano gli Stati membri a promuovere nuove opportunità di miglioramento delle competenze e di riqualificazione per i cittadini più “maturi” e poco qualificati.
Questa raccomandazione rappresenta, almeno secondo gli estensori, in un’ottica che scommette con forza sull’occupazione qualificata nel nostro continente, un punto di svolta per quanto attiene alle misure di orientamento professionale, validazione dell’apprendimento non formale e informale e la rimozione dei vari ostacoli allo sviluppo delle competenze.
La risposta italiana alla Raccomandazione è complessa e si trova, fondamentalmente, nel Piano strategico nazionale per lo sviluppo delle competenze del 2021. Questo evidenzia grandi differenze territoriali nell’offerta di azioni di orientamento, sia in termini di disponibilità che di risultati raggiunti.
Una carenza che sembra nascere dalla mancanza di una chiara logica di sistema (obiettivi, ruoli, responsabilità e meccanismi di governance all’altezza) e di risorse umane, finanziarie e tecnologiche adeguate. Emerge, inoltre, come gli obiettivi dell’orientamento siano, fondamentalmente, limitati ai disoccupati (o alle persone a rischio di disoccupazione) e finalizzati al loro “lavoro” di (re)integrazione nel mercato e meno verso un orientamento professionale permanente per tutti.
In questa prospettiva si sottolinea come la definizione di forme di cooperazione di reti territoriali, o altre tipologie di “network” anche meno formalizzate o non istituzionali, sia considerata un obiettivo strategico da raggiungere per meglio supportare i cittadini, specialmente i più vulnerabili, e avviarli così verso percorsi di orientamento e consulenza personalizzati, di istruzione e formazione e, ovviamente, opportunità di lavoro “sostenibili”.
Si evidenzia, tuttavia, la mancanza di risorse, di ruoli chiari, responsabilità e meccanismi di coordinamento specifici che, a oggi, impediscono il creazione di queste “buone pratiche” di cooperazione a livello territoriale.
Emerge, inoltre, che, nella maggior parte dei casi, queste esperienze non sono formalizzate, sono limitate a progetti specifici e fanno affidamento su finanziamenti “ad hoc”.
Tutto ciò premesso, tutti i soggetti interessati concordano che queste reti si sono dimostrate particolarmente efficaci nel coinvolgere i soggetti più vulnerabili e sull’importanza di coinvolgere quei soggetti che meglio conoscono i territori come, ad esempio, quelli del Terzo settore.
Sembra, insomma, che le dinamiche di un mercato sempre più complesso, e globale, che tende ad ampliare le disuguaglianze sociali, specialmente con riferimento ad aree geografiche e a gruppi di cittadini più deboli, trovino la migliore risposta proprio nelle risorse messe a disposizione dalle comunità locali e dai corpi intermedi.
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