A pagina 85 della Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza – nella sezione Mercato del lavoro, politiche attive del lavoro e politiche sociali – si legge che “il Governo individuerà l’equo compenso per i lavoratori non dipendenti, al fine di evitare forme di abuso e di sfruttamento, in particolare a danno dei giovani professionisti, e interverrà per limitare il fenomeno delle cosiddette “false partite Iva”.



Poco prima, alla stessa pagina, vi è un altro elemento utile da annotare: “Si prevede di sostenere l’intervento di regolazione della rappresentanza sindacale e datoriale realizzato mediante la disciplina di indici rigorosi di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni dei lavoratori e delle imprese”.



Posto che sulla questione rappresentatività è utile considerare la recente convenzione firmata da Inps, Cgil, Cisl, Uil, Confindustria e altre organizzazioni datoriali, concentriamoci sul primo punto, ovvero sull'”equo compenso”. Non può sfuggire, intanto, che lo si riferisce ai lavoratori non dipendenti e che magicamente è sparita la locuzione “salario minimo”. Già, perché i lavoratori non dipendenti non percepiscono un salario ma semmai una parcella o un onorario o, appunto, un compenso; ma non un salario. Non è semplicemente un gioco di parole e ne avevamo già scritto in tempi non sospetti.



In estrema sintesi, ripartiamo da capo: in Europa 22 stati su 28 prevedono il salario minimo. Nella maggior parte dei casi (Eurofound 2018) il livello minimo è fissato su base mensile, ma in Germania, Gran Bretagna e Irlanda c’è anche un minimo orario rispettivamente a 8,84 euro lordi (9,19 da quest’anno), 7,8 sterline (8,21 da aprile) e 9,55 euro (9,80); in Francia il minimo è 1.498 euro al mese (1.521 da gennaio 2019), in Spagna 858 euro (1.050 da inizio anno). Il salario minimo è misura adottata prevalentemente per contrastare il fenomeno dei working poor che è il motivo per cui, anche in casa nostra si è iniziato a parlarne già nel 2015 col Jobs Act (unica delega mai attuata).

Ora: perché in Italia non vi è una stretta sul salario minimo come negli altri paesi europei? Nel nostro Paese, come abbiamo più volte ricordato, la copertura della contrattazione collettiva arriva al 90% dei rapporti di lavoro. Ciò non significa che il fenomeno del lavoro povero riguarda soltanto il 10% dei lavoratori, ma se il Governo intende intervenire come scritto nella Nadef significa che ha raggiunto un’intesa ufficiosa con le Parti sociali che, più o meno, ha questi obiettivi: 1) indicare l’equo compenso per il lavoro non dipendente; 2) individuare soggetti e criteri di rappresentatività (di imprese e lavoratori dipendenti) attraverso la misurazione della rappresentanza; 3) stabilire l’efficacia erga omnes dei contratti dei soggetti maggiormente rappresentativi.

Il punto 3 significherebbe individuare dei minimi retributivi validi per tutti, perché in quel 90% di rapporti di lavoro coperti da contrattazione collettiva vi è un numero elevato di lavoratori vittima del dumping salariale causato dai cosiddetti contratti pirata, ovvero con salari al ribasso. Tutto bene nelle intenzioni, inoltre i punti 1 e 2 sono ormai in fase di attuazione. Il problema è come realizzare l’efficacia erga omnes dei contratti quando l’articolo 39 della Costituzione afferma il principio della libertà sindacale in base alla quale il contratto Fiat del 2010 è stato ritenuto legittimo dalla Corte Costituzionale. Qualche accordo sarebbe efficace e quindi libero, e qualcun altro no…

Twitter: @sabella_thinkin

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