Se qualcuno si prendesse la briga di consultare il programma del XIX Congresso della Cgil, che inizierà il 15 marzo a Rimini e si concluderà il 18 dello stesso mese, potrebbe avvertire una curiosità: come mai tra tanti ospiti è inclusa anche un ministro del Governo spagnolo, precisamente la titolare del Lavoro Yolanda Diaz? È il solo caso di esponente di un governo di un altro Paese dell’Unione.



Chi in questi mesi si è guardato attorno nel Campo di Agramante del movimento sindacale trova subito la risposta. Facendo il verso a Carlo Rosselli e al suo “Oggi in Spagna, domani in Italia”, i sindacalisti nostrani rivendicano dal Governo una disciplina dei contratti a termine simile a quella varata in Spagna. E del medesimo tenore sono le richieste dei partiti della sinistra, ora pentiti delle misure adottate dai precedenti Governi di cui facevano parte (almeno il Pd). Nella Mozione di Elly Schlein la rivendicazione era molto chiara: “Bisogna limitare il ricorso ai contratti a tempo determinato a partire da quelli di brevissima durata, come hanno fatto in Spagna coinvolgendo organizzazioni datoriali e sindacali, e rendere strutturalmente più convenienti per le imprese i contratti stabili”.



Collettiva, il giornale on line della Cgil rilancia: “A diffondere i risultati è stato il Sepe, il Servizio Pubblico Spagnolo per l’Impiego, che ha messo in evidenza anche i dati sull’occupazione giovanile. Il tasso dei senza lavoro per gli under 25 – che negli anni successivi al 2008 aveva toccato punte del 55% – è sceso al 315. Ora, e finalmente per questa fascia d’età, aumentano anche i posti fissi +142% negli ultimi undici mesi. Ma non è un caso: il 2022, infatti, per il mercato del lavoro spagnolo è stato l’anno della riforma ottenuta grazie a un accordo raggiunto alla vigilia di Natale 2021 tra sindacati, Governo e imprenditori. L’intesa ha stravolto – e alla luce delle statistiche ormai smentito – i paradigmi neoliberisti”. Non è da meno PierPaolo Bombardieri nel ricordare ad ogni occasione il caso spagnolo.



In realtà, il ragionamento è più complesso. La situazione di quel Paese è molto diversa dalla nostra, in quanto la quota di lavoro a termine è ora pari al 25% dei rapporti di lavoro subordinato (l’Italia è in linea con la media europea). Poi le assunzioni a termine fanno parte della fisiologia del lavoro per sostituire lavoratori o affrontare lavori stagionali e picchi produttivi. È quanto si è stabilito in Spagna, su impulso della Commissione europea che aveva condizionato l’erogazione della prima tranche (12 miliardi) del Recovery fund a una riforma del marcato del lavoro. Dal 1° gennaio i contratti a termine non possono durare più di sei mesi (o un anno in presenza di accordi collettivi) e potranno essere utilizzati dalle imprese per non più di 90 giorni in un anno.  Come si vede, sembra eccessivo parlare di abolizione, anche se il ridimensionamento è evidente, con riguardo però a una disciplina precedente che non aveva riscontri attendibili con quella italiana.

La differenza tra la disciplina del rapporto di lavoro spagnolo con quello italiano, riguarda in via prioritaria le norme del licenziamento. Se il Giudice del lavoro, su ricorso del lavoratore, ritiene e il licenziamento come “improcedente” (illegittimo) condanna l’azienda a pagare al dipendente licenziato  un’indennità pari a 33 giorni di salario per anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità. Non sembrano necessarie molte spiegazioni per individuare le differenze con l’ordinamento del recesso vigente in Italia (compreso quanto previsto nel contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti di cui al dgls n. 23/2015).

Da noi – prima della legge n.604/1966 (che introdusse il giustificato motivo) e della legge n.300/1970 (che stabilì l’obbligo di reintegra) – quando vigeva il licenziamento ad nutum ex articolo 2118 del codice civile (vi era solo l’obbligo del preavviso), il ricorso al lavoro a termine era fortemente limitato dalla legge n.230/1962 in cui erano delle rigide causalità. Come stabiliva l’articolo 1: “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate. È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto:

a) quando ciò sia richiesto dalla speciale natura dell’attività lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima;

b) quando l’assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto, sempre che nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione;

c) quando l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale;

d) per le lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente, impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative per le quali non vi sia continuità di impiego nell’ambito dell’azienda;

e) nelle scritture del personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli.

L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto. Copia dell’atto scritto deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore. La scrittura non è tuttavia necessaria quando la durata del rapporto di lavoro puramente occasionale non sia superiore a dodici giorni lavorativi”.

Peraltro l’articolo 2119 c.c. prevede (tuttora) che il contratto a tempo determinato possa essere risolto prima del termine soltanto per giusta causa.

Tra pochi giorni sarà ricordato il XXI anniversario dell’assassinio di Marco Biagi per mano delle Br. Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – e utile alle imprese e ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici mirati a regolare le diversità dei rapporti di lavoro, anziché imporre loro, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato (non più “unico”, anche se a lungo si era pensato che questa fosse una soluzione possibile) sia pure meno oppressivo e poliziesco per quanto riguarda la tutela del licenziamento.

La legislazione più recente, fino al decreto Poletti e al Jobs act, ha seguito la strada indicata da Biagi. I tentativi di deviazione – come il c.d. decreto Dignità – sono miseramente falliti, perché una maggiore flessibilità del lavoro non è un attacco della Reazione in agguato, ma un’esigenza del mercato del lavoro. La tabella
sottostante svela le reali dimensioni di ciò che viene definito il “precariato dilagante” da Maurizio Landini.

Fonte: Inps 2021

Quanto meno sarebbe più serio e utile aggiornarsi sui trend del mercato del lavoro. Riassumiamo di seguito la consueta sintesi effettuata, per Adapt, da Francesco Seghezzi. In tutto l’anno trascorso gli occupati sono cresciuti di 334 mila unità. Nel 2022 i disoccupati sono diminuiti di 242 mila unità mentre gli inattivi di 225 mila unità. In tutto il 2022 (a proposito della “precarietà dilagante”) sono cresciuti di 270 mila unità gli occupati a tempo indeterminato e diminuiti di 30 mila quelli a termine. Sempre nell’anno scorso il tasso di occupazione è cresciuto di 1,4 punti per gli under 25, di 1,8 tra i 25 e i 34 anni, di 0,7 tra i 35 e i 49 e di 1,2 tra i 50 e i 64. Depurati dalla componente demografica i dati mostrano una crescita degli occupati under 35 marcata (+3,6) seguiti dagli over 50. La demografia ha un peso sempre più crescente sul mercato del lavoro: nel 2022 la popolazione in età da lavoro (data dalla somma forze lavoro + inattivi) è diminuita di 133 mila unità.

Su Il Foglio del 4 marzo scorso, Maurizio Del Conte ha fornito i dati provvisori Istat sull’occupazione – a gennaio – che disegnano un quadro molto più ottimistico rispetto alla retorica disfattista e pessimista che troppo spesso affligge il dibattito italiano sul mondo del lavoro, descritto come impossibile da creare, trovare, sempre più precario, povero, discriminatorio. Secondo le rilevazioni, a gennaio prosegue l’aumento del numero degli occupati che arriva a superare i 23 milioni e 300 mila. Rispetto a gennaio dell’anno scorso la crescita di 459 mila unità è caratterizzata quasi totalmente da dipendenti assunti in modo permanente (+464 mila) e in parte dagli autonomi (+42 mila), mentre il numero di contratti a termine è diminuito di quasi 47 mila unità. Per quanto riguarda le classi di età, il tasso di occupazione della fascia di età 15-64 anni sale al 60,8 per cento (+1,4), quello di disoccupazione scende al 7,9 per cento (-0,7) e quello di inattività al 33,9 per cento (-1,1). Per i giovani tra 15-24 anni, il tasso di disoccupazione   scende di 2,5 punti arrivando al 22,9 per cento. Il tasso di occupazione cresce per tutte le fasce d’età, soprattutto tra 34 e 49 anni: +1,9 per cento. Un quadro così positivo del lavoro – conclude Dal Conte – registrato dal rapporto dell’Istat non era affatto scontato. E soprattutto risulta essere il migliore da quando si raccolgono i dati della serie storica.

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