Quando Giorgia Meloni – dopo “cent’anni di solitudine” – è riuscita a portare la destra dura e pura (senza alcuna mediazione) al Governo, da buona cristiana avrà certamente voluto ringraziare l’Onnipotente recitando la preghiera trasmessa agli esseri umani da Gesù Cristo in persona: il Padre nostro ovvero quella che i francesi chiamano “la prière chrétienne”. In particolare, Meloni avrà sottolineato con vigore una delle ultime invocazioni che peraltro non è più quella che ho imparato da bambino e che continuo a ripetere in quello stesso modo perché trovo arbitrario “correggere” le preghiere. Per farla breve mi riferisco al “non indurci in tentazione” che è divenuta, se non erro, “non abbandonarci alle tentazioni”. Ignoro quale sia la versione mandata a memoria dalla piccola Giorgia. In ogni caso il risultato non cambia, perché questa sua richiesta – almeno in materia di lavoro e di pensioni – è stata accolta “colà dove si puote ciò che si vuole”.
Meloni ha dimostrato che, a volte in politica e soprattutto in talune delicate materie, è meglio fare poco, o addirittura non fare, per provocare meno danni al Paese, all’economia e alla società civile. Purtroppo, se si allargasse il discorso al voto sul Mes, il giudizio sul Governo della destra potrebbe cambiare di segno. Rimanendo, però, entro i limiti che ci siamo assegnati all’inizio, ci è consentito – a Legge di bilancio approvata – di riconoscere che l’azione del Governo e della maggioranza in materia di lavoro e di welfare si è caratterizzata più per le omissioni che per le commissioni. Del resto la moltiplicazione di due segni negativi ne dà uno positivo.
A questa conclusione – invero un po’ disperata – ci si arriva considerando quanto sarebbe potuto succedere e non è stato. Guardandosi indietro si troverebbero – a carico di parecchi Governi – azioni e iniziative che sarebbe stato più opportuno evitare. Sappiamo per esperienza che affrontiamo materie divisive: infatti, quelle misure che per talune correnti di opinione sono riforme, per altre sono addirittura controriforme. E viceversa.
Andando a ritroso nei primi quindici mesi di Governo è doveroso prendere atto che non vi sono state iniziative di particolare pregio, ma che, nel medesimo tempo, si sono evitate operazioni di carattere legislativo che non avrebbero favorito un’evoluzione positiva del diritto del lavoro e delle stesse relazioni industriali. Anzi, le aspettative erano piuttosto funeste se si fossero prese in parola la cultura, la storia e i programmi delle forze politiche che hanno vinto le elezioni.
Il sovranismo, infatti, viaggia insieme al populismo, perché è il secondo a sorreggere il primo, a dare l’illusione del nemico esterno annidato nella globalizzazione dell’economia, nello strapotere di mercati e delle istituzioni sovranazionali. L’incoerenza (benemerita) è stato il maggior pregio dell’azione del Governo. Per rendersi conto di quale sarebbe stata la politica del lavoro con un Governo diverso, basterebbe passare in rassegna gli emendamenti delle opposizioni a una Legge di bilancio 2024 tenuta insieme con le pecette. Sarebbe ancora in vigore il Reddito di cittadinanza, a cui si aggiungerebbeil salario minimo legale di 9 euro l’ora (perché – come abbiamo potuto capire – questo numero, pari al quadrato di 3, era sacro per la sinistra politica e sindacale); vi sarebbe in discussione una legge sulla rappresentanza per completare la “nazionalizzazione” delle relazioni industriali, da tempo in corso per le retribuzioni. In materia di pensioni ci troveremmo di fronte all’allargamento oltre misura di quelle fattispecie di lavoro disagiato (individuate puntigliosamente, per incarico del ministro Andrea Orlando, da una commissione presieduta da Cesare Damiano) che consentirebbero il pensionamento anticipato (oltre ovviamente all’uscita di sicurezza delle quote) nella prospettiva del “definitivo superamento” della riforma Fornero. Quanto all’occupazione non mancherebbe, nella Legge di bilancio, qualche norma per contrastare quella “precarietà” che “dilaga” negli incubi della terribile coppia Landini & Bombardieri.
Tutto ciò quando riscontriamo, invece, da mesi e nonostante la debolezza della crescita economica, tutta una sequela di nuovi record: il tasso totale di occupazione tra la popolazione in età da lavoro ha toccato il 61,8%, con 23.694.000 occupati. Picco anche per il tasso di occupati maschi (70,8%) e soprattutto per i dati sull’occupazione femminile: 10.017.000 per un tasso pari al 58,1% Il tasso di posti vacanti nelle imprese è salito da poco meno dell’1% di inizio 2016 fino al 2,2% di fine 2022 (con l’eccezione ovviamente del periodo di lockdown).
In questi ultimi giorni l’Ocse ha riservato ulteriori sorprese, nel Rapporto “Pensions at a glance”. L’Italia è tra i Paesi in cui la spesa pensionistica (322 miliardi pari a un terzo della spesa pubblica) pesa di più sul Pil (16%); in cui i pensionati hanno redditi in media più alti di chi lavora; dove i contributi previdenziali pagati dai datori e dai lavoratori (33%) sono la quota più alta del c.d. cuneo contributivo, mentre, nel complesso, l’aliquota media di contribuzione effettiva per le pensioni nei Paesi Ocse è del 18,2% del livello salariale medio. Non sarebbe inutile ragionare su questi dati per capire perché in Italia le retribuzioni sono basse. Ma sulla previdenza qualche inversione di marcia si intravvede.
Lo ha notato anche l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) che, nella Nota presentata in occasione dell’audizione sul ddl di bilancio (ddlb), ha riconosciuto che: “Alcune delle misure pensionistiche contenute nel disegno di legge (ddlb), sembrerebbero andare nella direzione di un cambiamento di visione rispetto agli ultimi anni: se da un lato vengono riproposti i canali temporanei di pensionamento con requisiti ridotti rispetto agli ordinari, dall’altro sono previste condizioni più stringenti e si introducono misure volte a incidere positivamente e strutturalmente sull’evoluzione futura della spesa pensionistica. In particolare, il ddlb rinnova l’Ape e Opzione donna aumentando in entrambi i casi il requisito anagrafico di accesso e, nel caso dell’Ape, restringendo la possibilità di cumulo con redditi da lavoro. Allo stesso modo, viene prorogato anche il canale di uscita con requisiti congiunti di età e anzianità (la nuova Quota 103,) ma corredandolo di limitazioni che ne riducono l’attrattività. Più che un’effettiva possibilità di pensionamento anticipato, la nuova quota sembrerebbe il primo passo – prosegue l’Upb – verso l’introduzione generalizzata della possibilità di pensionamento flessibile condizionata al ricalcolo contributivo integrale dell’assegno. Rispondono invece a finalità di contenimento strutturale della spesa – puntualizza l’Upb -, l’anticipo dello sblocco dell’adeguamento alla speranza di vita dei requisiti di pensionamento anticipato, la revisione dell’indicizzazione delle pensioni ai prezzi per l’anno 2024 e l’eventuale revisione più generale del meccanismo di indicizzazione che potrebbe risultare dal 2027″.
Ricorda ancora l’Upb che, per i lavoratori “contributivi” sono stabiliti la riduzione dell’importo minimo per l’accesso alla pensione di vecchiaia ordinaria e l’aumento di quello per l’accesso alla pensione anticipata con requisiti di età. Anche queste due misure denotano – secondo l’Upb – un cambiamento di visione perché, da un lato, permettono a chi arriva a 67 anni con una posizione pensionistica molto debole, difficilmente migliorabile tramite ulteriori sforzi lavorativi, di accedere comunque a dei redditi che seppure bassi possono alleviare i loro bisogni e, dall’altro, richiedono che i soggetti relativamente più giovani si sforzino di rafforzare autonomamente l’adeguatezza delle proprie pensioni, per ridurre il carico sulle finanze pubbliche e non sottrarre risorse agli istituti a finalità redistribuiva rivolti a coloro non hanno mezzi sufficienti o la possibilità di costituirseli.
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