Un Governo autorevole e l’efficacia della campagna delle vaccinazioni hanno contribuito a migliorare il clima di fiducia delle imprese e delle famiglie e le previsioni per la crescita economica del nostro Paese per l’anno in corso, allineando i tempi del recupero del Pil precedente alla crisi Covid alla media dei Paesi europei. Ma in parallelo crescono gli allarmi delle associazioni delle imprese, in particolare quelle dell’agricoltura e dei servizi turistici e della ristorazione, per la difficoltà di reperire una manodopera adeguata per sostenere le aspettative di ripresa delle attività.
Queste uscite stanno provocando un certo scalpore sui mass media e nell’opinione pubblica, data la concomitante crescita del numero delle persone in cerca di lavoro, circa 850 mila nel corso degli ultimi 12 mesi (dato Istat aprile 2021), e la perdurante richiesta di prorogare il blocco dei licenziamenti e la durata delle casse integrazioni da parte delle organizzazioni sindacali, sulla base del presupposto che non esista la concreta possibilità di ritrovare un lavoro per i lavoratori che saranno licenziati.
E sono proprio i sostegni al reddito essere finiti sotto accusa, anche per le denunce avanzate da un discreto numero di associazioni imprenditoriali e di datori di lavoro che segnalano come questi sussidi pubblici stiano disincentivando i disoccupati dall’accettare nuove offerte di lavoro, in particolare quelle per lavori a termine o stagionali. Denunce rispedite al mittente da numerose testimonianze di disoccupati ospitate sui mass media, che dichiarano di aver ricevuto proposte di lavoro a condizioni salariali e di orari di lavoro del tutto inaccettabili. Difficile negare che questo non abbia una sua rilevanza, dato che molte aree e settori di attività (lavoro domestico, agricoltura, costruzioni, nei servizi turistici e della ristorazione) risultano effettivamente caratterizzate da ampie quote di lavoro sommerso, e da condizioni di grave sfruttamento dei lavoratori ampiamente confermate nelle indagini degli ispettori del lavoro. Ma la contrapposizione è priva di senso se riferita all’impossibilità dei datori di lavoro di trovare lavoratori offrendo loro un regolare contratto di lavoro, anche se a termine o stagionale, come previsto dalla normative in essere, e tenendo conto che questi rapporti rappresentano il 70% di quelli regolarmente attivati nel corso di ogni anno e svolti in via ordinaria da oltre tre milioni di lavoratori.
L’unica, e sciagurata, eccezione è stata quella introdotta due anni fa dal legislatore per i beneficiari del reddito di cittadinanza che li autorizza a rifiutare anche due proposte di lavoro regolare, senza subire sanzioni. E che non a caso è diventata il simbolo dei fannulloni sovvenzionati dallo Stato.
Semmai dobbiamo interrogarci se i sostegni al reddito, soprattutto se consistenti e prolungati per lungo tempo, producano effettivamente un disincentivo nell’accettare offerte di lavoro. Le analisi svolte sul fenomeno, e gli effetti fallimentari di molti programmi di politica attiva del lavoro, confermano che il problema esiste, per effetto di comportamenti razionali da parte dei beneficiari dei sussidi. Da un lato molte delle offerte di lavoro regolare rese disponibili non sono particolarmente appetibili perché riconducibili a lavori di bassa qualificazione, che comportano la rinuncia al sostegno al reddito lavorando a pieno regime per ottenere poche centinaia di euro in più. Ma diventano appetibili, in molti casi, le prestazioni pagate in nero, meno vincolanti per gli interessati e per i datori di lavoro, che offrono la possibilità di cumulare gli introiti con l’assegno pubblico.
A tal proposito, una ricerca svolta nell’ambito dell’Inps sui comportamenti dei beneficiari dei sostegni al reddito nel corso della crisi 2008-2014 ha evidenziato come la quasi totalità degli interessati abbia usufruito dei sostegni al reddito per l’intero periodo di durata previsto e trovato un nuovo posto di lavoro immediatamente dopo la cessazione dei sussidi.
Nel settore dell’agricoltura, dove poche centinaia di euro di versamento dei contributi previdenziali per lavorare almeno 51 giornate possono consentire di beneficiare delle indennità di disoccupazione per il resto dell’anno, sono diffusissimi i casi di simulazione di rapporti di lavoro fasulli (che insieme alla invalidità civile sono l’oggetto di decine di migliaia di contenziosi presso l’Inps), e non di rado vengono utilizzate le risorse pubbliche incamerate da parte delle imprese per remunerare i lavoratori sommersi nelle raccolte stagionali, la gran parte dei quali di origine straniera.
Quello che emerge da queste analisi, e da molte altre esperienze di politica attiva del lavoro, è la particolare relazione che esiste tra l’erogazione dei sostegni al reddito di lunga durata, il lavoro sommerso e il rifiuto di accettare offerte di lavoro regolari, che genera distorsioni nei comportamenti di una parte degli attori della domanda e dell’offerta di lavoro.
Di fronte all’evidente necessità di promuovere il ricollocamento di milioni di lavoratori nell’ambito delle riorganizzazioni produttive che sono attese nei prossimi anni, quali insegnamenti possiamo apprendere dalle esperienze storiche, anche recenti, sul rapporto esistente tra l’erogazione dei sostegni al reddito per disoccupati e l’efficacia delle politiche attive del lavoro?
Un primo insegnamento riguarda l’importanza di mantenere solida la funzione assicurativa, dei sostegni al reddito finalizzata a far fronte alle conseguenze della perdita involontaria del lavoro con indennità di disoccupazione di importo ragionevole e temporalmente delimitate. Ripristinando un netto distinguo con gli interventi assistenziali rivolti alle persone fragili e alle misure di contrasto della povertà. Dalle indiscrezioni che circolano sulla riforma dei sostegni al reddito pare invece che la direzione di marcia sia quella opposta di introdurre dei sostegni al reddito di importo più elevato, estendendoli a un’ampia platea ei beneficiari, in molti casi senza una specifica relazione con la perdita involontaria del lavoro, sulla stregua di quanto sperimentato nel corso della pandemia Covid (una condizione eccezionale giustificata dal fatto che le interruzioni delle attività produttive sono state disposte dalle autorità pubbliche per motivazioni sanitarie).
Del resto anche il prosieguo del blocco dei licenziamenti, assistito dalle casse integrazioni, non è altro che una forma di allungamento nel tempo dei benefici dei sostegni al reddito, motivata dalla salvaguardia di posti di lavoro che non hanno ragion d’essere dal punto di vista economico, con l’effetto di ritardare l’adeguamento delle dinamiche delle imprese e della domanda e offerta di lavoro.
Una seconda lezione attiene l’importanza di legare le politiche attive al rigoroso rispetto di un codice di diritti e doveri dei beneficiari dei sostegni al reddito, mettendo loro a disposizione le opportunità formative e di orientamento lavorativo con il vincolo di accettare le offerte di lavoro compatibili con il profilo professionale, e sanzionando effettivamente i rifiuti con la perdita dei sussidi.
La grave condizione del nostro mercato del lavoro dovrebbe suggerire a tutti i principali attori in causa, a partire dalle istituzioni e dalle parti sociali, di evitare polemiche superficiali e incongrue per un Paese che ha il più basso tasso di occupazione, 6 milioni tra disoccupati e persone scoraggiate in età di lavoro tra le quali 2,5 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, e di sporcarsi concretamente le mani per offrire soluzioni realistiche alle criticità.
Ad esempio, per contrastare nel territorio il lavoro sommerso e l’intermediazione illegale, con la creazione di liste di disponibilità della domanda e offerta di lavoro e offrendo servizi per migliorare le competenze dei lavoratori e la produttività dei servizi.
Ma una relazione corretta tra le politiche passive di sostegno al reddito con quelle attive per l’inserimento lavorativo, per quanto importante, e solo uno degli ambiti su cui intervenire per migliorare la qualità delle politiche per il lavoro e per l’occupabilità delle persone. La difficoltà nel reperire le risorse umane coerenti con i profili richiesti dalle imprese è dovuta purtroppo a una serie complessa di ritardi strutturali, a partire dal progressivo scollamento intervenuto tra i percorsi educativi, formativi con il mercato del lavoro, non risolvibili nel breve periodo.
È un tema che merita un approfondimento specifico, e che faremo in un prossimo articolo.