L’andamento delle retribuzioni dei lavoratori, che risulta largamente inferiore a quello dell’inflazione, ha riportato al centro dell’attenzione politica la questione salariale. Il tema viene impropriamente collegato a quello del salario minimo legale e alla necessità di offrire per questa via una risposta alle persone che, pur lavorando, risultano povere. Come abbiamo cercato di dimostrare in una serie di articoli precedenti, la relazione tra i due fenomeni, le basse retribuzioni contrattuali e i redditi da lavoro effettivi, non è affatto scontata. Perché il valore dei salari percepiti nel corso dell’anno dipende principalmente dalla durata effettiva delle prestazioni lavorative. Per comprendere meglio l’affermazione è necessario chiarire la distinzione che esiste fra tre aspetti: la quantità, la qualità e gli effetti economici e sociali che hanno inciso negativamente sull’andamento dei redditi da lavoro.



I criteri convenuti a livello europeo per stimare il numero dei lavoratori poveri, le persone che lavorano più di 6 mesi e appartengono a nuclei familiari con redditi inferiori al 60% di quello mediano nazionale, hanno come obiettivo la segnalazione delle criticità inerenti al contributo delle prestazioni lavorative alla formazione dei redditi familiari. Criticità che diventano esponenziali nei mercati del lavoro, come quello italiano, che registrano un basso tasso di occupazione e di conseguenza del numero dei redditi che concorrono alla formazione di quello familiare. Queste indagini vengono utilizzate per cercare di prevenire le cause della povertà favorendo l’inclusione lavorativa di un maggior numero di persone. Ovvero per erogare i sostegni al reddito pubblici di varia natura: fiscali, contributivi, l’accesso facilitato alle prestazioni e servizi, verso i nuclei familiari poveri.



Nella versione italiana è la quota dei redditi da lavoro al di sotto della soglia di povertà, che vengono stimati con le dichiarazioni Isee per accedere alle varie prestazioni (reddito di cittadinanza, assegno unico, bonus di varia natura). Una condizione che nelle stime dell’Istat dovrebbe riguardare circa il 13% (poco più di 600mila) delle persone in condizioni di povertà assoluta. Nell’ambito dei nuclei che percepiscono effettivamente il Reddito di cittadinanza sono attualmente il 17%. Una cifra che aumenta se consideriamo la quota dei beneficiari del Rdc che percepiscono anche delle indennità di disoccupazione.



Una stima dei lavoratori poveri che non prende in considerazione i redditi familiari ma solo i singoli occupati che hanno redditi da lavoro annui inferiori al 60% rispetto al salario mediano, è stata fatta da un gruppo di lavoro designato dal ministro Orlando, coordinato da un economista dell’Ocse, Andrea Garnero, utilizzando i dati salariali ufficialmente dichiarati all’Inps per i versamenti contributivi ( anno 2018). Sulla base di questo criterio, molto opinabile, i lavoratori poveri aumenterebbero a 3,1 milioni all’interno di una platea di 5,1 milioni di lavoratori dipendenti e autonomi esposti a questo rischio (titolari di rapporti di lavoro a termine, part time, partite Iva per prestazioni occasionali). Questi numeri si riducono se ai salari ufficialmente dichiarati vengono sommati i sostegni al reddito erogati dallo Stato per i periodi di disoccupazione.

Le policy suggerite dal gruppo di lavoro citato per contrastare il fenomeno, l’introduzione di un salario minimo legale con il coinvolgimento delle parti sociali e l’introduzione di vincoli per l’utilizzo dei contratti a termine o ad orario ridotto, vengono pertanto declinate nella forma delle tutele del reddito delle singole persone che vengono definite povere sulla base di un criterio che non ha riscontri nelle statistiche ufficiali. Ma esiste un’altra definizione di lavoro povero, quella legata alle condizioni che non consentono di avere retribuzioni dignitose per la bassa redditività delle imprese o delle competenze limitate dei lavoratori.

Nel mercato del lavoro italiano la quota dei lavoratori con bassa qualificazione, superiore al 30% sul totale degli occupati, risulta più elevata rispetto alla media dei Paesi storici aderenti all’Ue. A deprimere il valore del lavoro è la bassa produttività delle imprese in molti settori, in particolare dei servizi ad alta intensità di lavoro, coincidente con la decrescita dei relativi livelli di capitale investito nel corso degli anni duemila. Indubbiamente esiste una stretta relazione tra formazione dei lavoratori poveri, i redditi da lavoro che non sono adeguati, e la domanda e offerta di lavoro povero. Ma il collegamento con gli importi orari dei salari minimi contrattuali risulta molto labile. Un intervento sul salario minimo legale non è in grado di per sé di influenzare la crescita del tasso di occupazione o di aumentare le ore lavorate nel corso dell’anno da parte dei lavoratori a termine, a part time o stagionali. Un aumento forzato dei salari orari minimi, a prescindere che sia il contratto collettivo o una legge a stabilirlo, potrebbe comportare anche un deprecabile aumento delle quote di lavoro sommerso.

Questo aspetto viene colpevolmente trascurato soprattutto nelle statistiche che prendono per oro colato le dichiarazioni Isee sui redditi familiari o i dati ufficiali delle retribuzioni dichiarate all’Inps. Stime che dovrebbero tenere in debito conto l’impatto sui redditi finali degli oltre 80 miliardi di euro relativi alle prestazioni da lavoro non dichiarate (equivalenti al lavoro a tempo pieno di oltre 3 milioni di lavoratori). Tema molto complesso e meritevole di una specifica riflessione. In questa sede giova evidenziare le conseguenze della sottostima dei redditi individuali e familiari reali, aggiuntive al mancato pagamento delle imposte, per l’indebita erogazione delle risorse pubbliche destinate ai ceti meno abbienti. Altrettanto giova rammentare che l’incidenza del lavoro sommerso stimata dall’Istat nei vari settori coincide esattamente con le attività economiche che registrano un elevato utilizzo dei contratti a termine, part time e stagionali. Per la contrattazione collettiva l’effetto di concorrenza sleale generato dal lavoro sommerso è il convitato di pietra che impedisce la possibilità di far crescere i salari ufficiali. Sul versante dei costi del lavoro diventa un modo illegale di ridurre il cuneo fiscale che viene utilizzato da milioni di soggetti, fornitori e utilizzatori, per ridurre i costi delle prestazioni dei servizi verso le persone e le famiglie.

Tutti gli indicatori disponibili, vale a dire l’andamento della produttività, il sottoutilizzo delle risorse umane, l’incidenza del lavoro sommerso, mettono in evidenza i fattori strutturali che sono all’origine della bassa crescita dei salari e del basso impiego delle risorse umane. Non sono problemi attribuibili alla competizione internazionale, alla cattiveria delle multinazionali accusate di abbandonare il nostro Paese o alla riduzione dei diritti dei lavoratori operata dalla legge Biagi o dal Job act. La crescita dei settori dei servizi negli altri Paesi della vecchia Europa ha consentito di raggiungere tassi di occupazione più elevati con retribuzioni migliori. A fare da traino della buona occupazione sono stati i comparti della sanità, dell’assistenza e dell’istruzione, con un contributo importante delle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, per rispondere ai nuovi fabbisogni legati all’invecchiamento della popolazione, per rendere compatibili i carichi di lavoro con quelli familiari e per adeguare le competenze dei lavoratori.

L’incidenza della spesa pubblica destinata alle prestazioni sociali sul prodotto interno è aumentata in Italia in modo analogo alla media degli altri Paesi, ma per la quota dei trasferimenti assistenziali operati dallo Stato per rendere sostenibile la spesa pensionistica e per allargare le maglie dei sostegni ai redditi delle persone che non lavorano. Due modi alternativi di affrontare le problematiche della crescita economica e di tutelare i redditi delle persone. A fare la differenza sono i risultati, e quelli ottenuti in Italia non sembrano particolarmente esaltanti.

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