La tattica del continuo rinvio dei dossier più scottanti seguita dal Governo sta arrivando al capolinea. Il risultato elettorale ha sì dato stabilità all’alleanza di governo, ma così ha anche posto fine alle dilazioni obbligando i ministri ad affrontare i temi che avevano a lungo messo sotto il tappeto con la scusa di non creare problemi elettorali. Dal punto di vista economico i nodi che con l’autunno arriveranno al pettine sono noti da tempo, ma finora si era cercato di aggirarli o annacquarli con programmi rinviati a comitati di esperti, lunghi incontri preparatori e convegni inconcludenti.



Il dato certo è che avremo una forte caduta del Pil, magari non a due cifre come si temeva ma anche se solo al 9,5% è un dato pesante. Ciò si somma al ritardo nel recupero di produttività e capacità di crescita indispensabili per colmare il ritardo accumulato dalla nostra economia rispetto ai Paesi concorrenti dopo la crisi del 2008.



L’esigenza di avere una visione di lungo periodo dello sviluppo del Paese e di investire tutti i fondi che saranno messi a disposizione dall’Europa con un moltiplicatore di crescita molto alto nasce da questo nostro ritardo nel recuperare un tasso di crescita adeguato e dalla capacità così di coprire nuovo e vecchio indebitamento riportando sotto la soglia di sostenibilità intergenerazionale il debito pubblico.

Solo una grande capacità di investimento potrà rimettere in moto i settori economici necessari per creare la domanda di lavoro fondamentale per assorbire la perdita di posti di lavoro creata dalla fase della pandemia e che si somma a un’alta disoccupazione pregressa. Ciò va ricordato e sottolineato costantemente perché le sole politiche attive del lavoro oggi non sarebbero in grado di dare lavoro a tutti quelli che lo chiedono e lo chiederanno. C’è bisogno di creare molte nuove occasioni di occupazione e di investire in settori che creino lavoro di qualità, ad alta produttività e chiedendo mansioni tecniche avanzate. In questo quadro vanno pensate anche le politiche del lavoro che favoriscano una capacità di incontro fra domanda e offerta correggendo le storture che caratterizzano il nostro mercato.



Appare chiaro che gli interventi fatti dal Governo giallo-verde, reddito di cittadinanza e Quota 100, vanno corretti. Quota 100 è stata molto costosa e ha coinvolto solo il 30% del target dichiarato. È necessario perciò ripensare a scivoli di uscita dal mondo del lavoro per i pensionandi che siano più equi e adeguati alla realtà dei lavoratori interessati a uscire dalla produzione.

Il reddito di cittadinanza va rimodulato per assicurare migliore assistenza a chi è in povertà e va riorganizzata la parte di politica per l’inserimento lavorativo. Per questa parte si deve tornare ad avere un unico sistema universalistico che sappia offrire a chi cerca lavoro un sostegno al reddito, percorsi formativi di riqualificazione delle competenze e accompagnamento alla ricerca di nuova occupazione. La disoccupazione nell’immediato futuro sarà alta e avremo bisogno anche di cantieri pubblici temporanei per dare lavoro a tutti. Solo una rete di servizi pubblici e privati può essere in grado di rispondere alle tante esigenze che la fine del blocco dei licenziamenti e il proseguire della crisi di alcuni settori economici scaricheranno sul mercato del lavoro verso fine anno.

Nell’affrontare il tema delle politiche per il lavoro dal Governo si sottolinea la volontà di affrontare le diseguaglianze di genere, territoriali e intergenerazionali che pesano ancora fortemente nel nostro mercato del lavoro. Sud, giovani e donne sono come noto tre pesanti fonti di sottoccupazione e disoccupazione. Purtroppo, però, finora le prime proposte avanzate per affrontare questi annosi problemi ricalcano la politica dei bonus con cui questo Governo ha affrontato tutti i problemi categoriali durante la fase del lockdown.

Così come si è fatto il bonus babysitter e il bonus bicicletta si pensa di rispondere a questioni storiche come il ritardo del Mezzogiorno o della abnorme disoccupazione giovanile e femminile con bonus economico-fiscali, tesi a rendere economicamente favorevole la scelta di operare investimenti al Sud o favorire l’occupazione di giovani e donne. La disponibilità di risorse che avremo deve invece servire a predisporre interventi strutturali che correggano le distorsioni del sistema, altrimenti torneremo a produrre diseguaglianze anche nei prossimi anni.

Certo, una politica fiscale per sostenere investimenti nel Mezzogiorno è utile, così come ancora di più sarebbe farne zona di vantaggio fiscale per uno o due decenni. Ma senza dare più libertà al mercato, facendo fare un passo indietro ai lacci e lacciuoli che la Pubblica amministrazione pone contro lo sviluppo economico in quelle regioni, ogni altro strumento sarà inutile.

Lo stesso si può dire per l’occupazione femminile e giovanile. Si tolgano di mezzo tutti i falsi contratti di lavoro (stages e tirocini), si punti su part-time e apprendistato. Si investa rafforzando e favorendo la crescita del sistema duale di formazione alternata fra aula e impresa. Si attui non uno smart working che diventa sfruttamento da gig economy, ma politiche di conciliazione lavoro e famiglia. Tutto ciò cambierebbe in modo strutturale il tasso di occupazione femminile e giovanile. Vorrebbe dire che si è tratto insegnamento dai dati delle politiche visto che con Garanzia Giovani si sono prodotti solo tanti tirocini che sono diventati occupazione reale solo al 30% nel nord e circa il 15% al sud.

Proporre politiche strutturali vorrebbe dire avere imparato dagli errori commessi e obbligare tutti a condividere una visione del futuro che mobiliti desideri e speranze diffuse.