Il concetto di precarietà è uno dei più dibattuti nel mondo del lavoro e rappresenta una questione a cui sono state date molteplici chiavi di lettura e interpretazioni. Spesso utilizzato impropriamente come sinonimo di temporaneità o flessibilità, gli è comunque stata sempre riconosciuto, giustamente, una connotazione piuttosto negativa.
Penso sia opportuno partire dalla definizione di precario. L’etimologia della parola deriva dal latino precarius, ossia ottenuto con preghiere, concesso per grazie. Nella sua declinazione come aggettivo sta a indicare una condizione di incertezza e non sicurezza. Da questa breve indagine sulla locuzione penso possiamo partire da un assunto per cui precario debba considerarsi un lavoratore che vive una condizione di preoccupazione e insicurezza. Ritengo preliminarmente opportuno fare due considerazioni.
La prima concerne il fatto che la situazione di incertezza e insicurezza è legata alla condizione soggettiva del lavoratore nella sua dimensione lavorativa, ma è anche indissolubilmente legata alla sua condizione extra-lavorativa che è sicuramente in grado di sterilizzare, attenuare o amplificare la percezione di precarietà. Più la sua situazione economica personale è complessivamente stabile, la rete sociale e famigliare solida, con un elevato e spendibile titolo di studio, un coerente percorso professionale intrapreso negli anni, meno si presume sarà forte la percezione di precarietà, a prescindere dalle dinamiche lavorative di temporaneità e flessibilità in cui sia coinvolto.
La seconda è che le condizioni oggettive del mercato del lavoro considerato nella sua complessità, come la sua dinamicità e un sistema di tutele pubbliche o contrattuali adeguate, possono sicuramente impattare in maniera differente sulla percezione di precarietà del lavoratore. E se consideriamo che il nostro Paese è comunemente considerato come a più velocità, penso debba essere un parametro oggetto di profonda attenzione: non è precario allo stesso modo un lavoratore che resta senza lavoro in un’area con forte depressione economica rispetto a un lavoratore di una regione con una alta dinamicità del mercato del lavoro. Così come la precarietà di oggi non si manifesta nelle medesime forme e modalità di dieci anni fa.
Si badi, la mia non vuole essere una derubricazione dei rischi che temporaneità e flessibilità estreme, in particolari situazioni, possono comportare. Sono ben consapevole che un’estrema temporaneità dei contratti di lavoro comporta una difficoltà di far evolvere la coscienza del lavoratore in un’ottica di comunità del lavoro con annessa difficoltà di costruire una rappresentanza; così come la smaterializzazione del luogo e del tempo della prestazione lavorativa costituisca una nuova e complessa sfida con cui il sindacato sta cominciando a misurarsi.
Penso, tuttavia, che debbano rigettarsi quelle concezioni abbastanza semplicistiche e arcaiche che propongono l’equazione temporaneità/precarietà o flessibilità/precarietà, atteso che, affinché possa parlarsi di precarietà, debbono concorrere a mio avviso le condizioni oggettive e soprattutto soggettive su esposte.
Ed ecco allora che potrebbe svanire quella paura legata alla temporaneità laddove il lavoratore avesse a disposizione un sostegno al reddito per le fasi di non lavoro e delle politiche attive, soprattutto di matrice contrattuale, adeguate e pertinenti con il contesto dato, che lo accompagnino nelle fasi di non lavoro per favorirne un suo reinserimento in tempi brevi; come potrebbe essere sterilizzato, attraverso la contrattazione, quel timore di una flessibilità selvaggia della prestazione lavorativa, non giustificata da esigenze di organizzazione del lavoro incoerenti con le reali necessità produttive, ma piuttosto figlia del becero tentativo padronale ottocentesco di voler tenere costantemente il lavoratore sotto il ricatto dell’imminente scadenza contrattuale.
Formazione e contrattazione sono oggi, a mio avviso, i veri antidoti contro la precarietà. Sono gli strumenti con cui costruire il protagonismo della persona nel mondo del lavoro. Un rilancio della formazione per democratizzare l’accesso al mercato del lavoro e per tutelare il lavoro nelle transizioni e un’effettiva valorizzazione della contrattazione per affrontare le nuove sfide che i nuovi temi della organizzazione del lavoro ci lanciano, come l’intelligenza artificiale.
Dobbiamo invertire il paradigma per cui l’approccio del lavoratore debba essere in un’ottica esclusivamente difensiva; dobbiamo dargli gli strumenti per essere protagonista.
Un sindacato moderno e riformista e al passo coi tempi deve anteporre nella sua agenda questi temi. Per quello che mi concerne reputo abbastanza sterile concentrarsi sull’inseguire i fantasmi della precarietà materializzatisi da riforme del passato; penso sia più utile concentrarsi sulla contingenza del momento che ci consegna un mercato del lavoro, dove tutte le statistiche ci dicono che le vere emergenze sono l’elevato abbandono scolastico, i Neet, la bassa occupazione femminile e un elevato part-time involontario, nonché un basso livello delle retribuzioni. E quindi contrattazione per alzare i salari, istruzione e formazione per agevolare l’accesso nel mercato del lavoro e per tutelare il lavoro nelle transizioni. Occorre costruire tutele per far in modo che la flessibilità non sia interamente a discapito delle esigenze di sicurezza dei lavoratori, piuttosto che tentare di distruggere quelle che sembrano possano essere le fonti della stessa concentrandosi oggi su quella disposizione di legge e domani su quell’altra, come in una delle fatiche di Sisifo, ignorando invece che la temporaneità deve essere governata e gestita in un’esperienza di prossimità (là dove effettivamente viene generata) proponendo risposte dinamiche e articolate.
Infine, penso sia doveroso concludere con la misura che più di tutte possa rendere protagonista il lavoratore nella comunità del lavoro. Mi riferisco alla proposta di legge sulla partecipazione.
La partecipazione, per come intesa dalla Cisl, significa innanzitutto che il lavoratore si riappropri della sua identità e dimensione e partecipi al cambiamento nell’ottica di costruire un futuro migliore per sé e per la comunità del lavoro tutta. E poi che attraverso la contrattazione e la partecipazione ai processi consultivi e decisionali delle imprese possa tornare a essere protagonista.
È la complessità dei tempi che viviamo che ci impone di agire avendo una visione ampia e complessiva della traiettoria verso cui deve incamminarsi il sindacato e la comunità del lavoro. È una sfida che non possiamo mancare andando alla carica dei mulini a vento come faceva Don Chisciotte nel capolavoro di Cervantes. Dobbiamo essere lucidi e responsabili, perché tanta è la responsabilità che sentiamo verso coloro che rappresentiamo.
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