L’Ocse ha dedicato un rapporto alla valutazione delle politiche attive attuate in Italia, in cui viene svolta un’analisi del mercato del lavoro italiano di medio-lungo periodo. Non cade nelle nostre polemiche tradizionali che commentano mensilmente il più o meno zero virgola uno e, da questo dato congiunturale, cercano di pontificare pro o contro le ultime scelte del Governo in carica. Il giudizio sintetico dell’Ocse è drastico: l’Italia spende poco e quel poco lo spende male. È ultima fra i paesi sviluppati per spesa in politiche attive e la varietà di strumenti messi in campo è scarsa. Il risultato è che siamo primi in spesa per politiche passive, 1,3% del Pil, mentre la media Ocse è dello 0,79%. Avendo privilegiato questo tipo di spesa, otteniamo che solo l’8,5% dei disoccupati ha ricevuto sussidi di disoccupazione.



Questi i dati al 2016 su cui il Jobs Act ha agito con la riforma degli ammortizzatori sociali e la decisa virata a favore delle politiche attive e introducendo nuovi sussidi di disoccupazione, la Naspi per i lavoratori dipendenti e un sostegno al reddito per i lavoratori autonomi. A fianco delle iniziative di sostegno al reddito, con cui si è badato a estendere il numero dei lavoratori tutelati in modo passivo sul versante reddituale, si è introdotto l’assegno di ricollocazione. Il valore economico così erogato era il valore di un paniere di servizi di politiche attive finalizzate a trovare una nuova collocazione lavorativa per chi aveva perso il lavoro. Gli effetti di tale scelta politica non sono ancora misurabili sui dati strutturali del mercato e hanno inciso solo per due stagioni e solo parzialmente.



Da un lato il sistema di deleghe Stato-regioni ha fatto e ancora fa sì che le politiche della formazione e del lavoro, delegate al livello regionale, abbiano generato una situazione nazionale non unitaria per l’offerta di servizi di ricollocazione e per l’offerta formativa. Infine, il nuovo Governo giallo-verde sta restringendo il ricorso alle politiche attive riaprendo il canale della Cassa integrazione e delle sole politiche passive come risposta alle nuove crisi industriali. Con ciò si torna a limitare le tutele economiche e di servizio rivolte a chi si trova a dover cercare una nuova occupazione per disoccupazione involontaria.



Quando l’Ocse sottolinea però il ritardo italiano e il limitato numero di strumenti di politica attiva messi in campo parte da due dati di fondo del ritardo strutturale del nostro mercato del lavoro. In particolare, richiama il fatto che l’Italia ha il peggiore tasso di occupazione femminile e che su questo si è fatto tradizionalmente molto poco. Quasi che si dia per scontato che fra donne e lavoro, nel nostro Paese, si debba mantenere un rapporto che riguarda solo una minoranza. Paesi che avevano fino a 20 anni fa una situazione analoga hanno invece investito in servizi finalizzati a favorire la partecipazione attiva delle donne al mercato del lavoro e hanno ottenuto risultati eclatanti, lasciandoci agli ultimi posti fra i paesi più sviluppati.

In secondo luogo, scontiamo un alto mismatch fra competenze richieste dal sistema economico e quelle offerte dal mercato. L’Ocse valuta che ben il 36,5% degli occupati soffre di un disallineamento formativo (sia verso l’alto che verso il basso) rispetto al posto di lavoro occupato. Si tratta quindi di operare per un grande piano di orientamento rivolto ai giovani per poter orientare verso percorsi formativi più allineati alla nuova domanda di competenze che viene dalla trasformazione dei sistemi di produzione e commercializzazione che investono le imprese. Ma soprattutto investire in formazione professionale, in alternanza scuola-lavoro e per lo sviluppo del sistema duale.

L’Italia ha necessità di un nuovo patto fra educazione-formazione e lavoro per coltivare quelle skills professionali che hanno caratterizzato nel tempo il valore del lavoro creativo italiano. Ve ne è necessità e convenienza. La misurazione che l’Ocse ci offre è che con la diminuzione del mismatch esistente fra domanda e offerta di lavoro potremmo recuperare fino al 10% di produttività. E in un sistema che ha recuperato poco nella produttività perduta con la crisi del 2008 sarebbe un risultato di grande utilità per tutto il Paese. L’assenza di chiare scelte nazionali e regionali per la formazione ha fatto sì che l’Italia si segnali anche per la maggior crescita dei Neet nel corso degli ultimi anni.

Lo stesso programma europeo di Garanzia giovani è stato sfruttato solo parzialmente. Se è stata la prima politica attiva gestita in modo unitario, per quanto riguarda la profilazione delle utenze, non si è però riusciti a fare lo stesso passo sul piano dei servizi. È risultato così che solo le pochissime regioni dove già erano in atto programmi di politiche attive hanno favorito inserimenti lavorativi reali ai giovani iscritti al programma. Nelle altre sono prevalsi corsi di formazione e tirocini che non hanno poi prodotto che scarsi inserimenti lavorativi a fine programma. L’incapacità di trovare un modello unico nazionale sta addirittura diventando un vero e proprio boicottaggio della nuova attuazione del secondo progetto di Garanzia giovani appena avviato.

In questo contesto si è introdotto il reddito di cittadinanza ritenendo che sia utile anche come politica del lavoro. Se spesso chi è povero è senza lavoro, non è detto che chi perde il lavoro entri subito nella fascia di reddito considerata di povertà. Ma la scelta demagogica ha prevalso, e così, essendo già ultimi come platea di disoccupati cui garantire tutela del reddito e servizi di ricollocazione, si è ristretta ancora di più la platea e non si danno servizi di ricollocazione. I disoccupati sono ora ancora più soli di come ha potuto valutare l’Ocse.