Il Rapporto Istat dedicato a disegnare lo stato del Paese nel 2023 ci fornisce spunti per verificare se ci stiamo muovendo per una crescita capace di correggere le nostre magagne storiche o se procediamo mantenendo gli stessi errori.
I dati generali indicano un possibile ottimismo. La nostra crescita economica post-pandemia è stata maggiore di quella degli altri Paesi europei con cui ci confrontiamo abitualmente. A questa crescita si è affiancato un aumento del tasso di occupazione che ci ha portato al record storico per numero di lavoratori. Due fattori che dovrebbero darci un risultato fortemente positivo mentre il quadro disegnato dal nostro istituto di statistica è a tinte fosche, con molte ombre che rischiano di dare una lettura negativa ai pur positivi dati che descrivono la situazione generale.
La contraddizione principale viene proprio da come si coniugano assieme i due dati principali. Abbiamo una crescita economica che ci ha assicurato di riprenderci dalla caduta della crisi da lockdown, ma ciò è avvenuto per coprire i continui buchi del debito pubblico e con un’occupazione che cresce ma con bassi salari e bassa produttività. A complicare la situazione si vedono già i primi effetti del calo demografico che amplifica il mismatching formativo che caratterizza da tempo le difficoltà fra esigenze del sistema produttivo e competenze dell’offerta di lavoro.
Se volessimo cercare un’immagine che riassume la nostra situazione potremmo dire che la vicenda del Superbonus per le abitazioni riassume doti e distorsioni del nostro modello di crescita. Abbiamo fatto un sistema che attraverso la creazione di nuova moneta ha drogato un settore economico. La nuova domanda di investimenti e di lavoro ha apparentemente portato a una crescita delle variabili economiche positive, ma il prezzo si è presentato poco dopo ed è un indebitamento non sopportabile dalla nostra finanza pubblica. La forte domanda ha portato a sottovalutare la qualità degli investimenti e la formazione dei lavoratori. Scarsa produttività e salari bassi sono il risultato di pensare che i bonus siano una nuova politica economica. La realtà ci ha testardamente dimostrato che distruggono l’economia sana e diventano un freno allo sviluppo.
Anche il quadro fornito dall’Istat presenta quindi luci e ombre. L’industria che ha investito ha trainato la nostra crescita e ha portato a un aumento delle esportazioni. Ritardi della digitalizzazione dell’amministrazione pubblica e del settore dei servizi hanno pesato al contrario. L’occupazione è cresciuta nei settori più in ritardo nel fare i necessari passi di innovazione e paga quindi con arretratezza nei livelli salariali e con una sottoccupazione diffusa l’esser impiegata con forme arretrate di organizzazione del lavoro.
Con questa situazione di forti differenze all’interno del sistema produttivo a pagare i prezzi più alti sono le situazioni che già prima erano penalizzate. Le tre G che pesano nel sistema Italia (giovani, genere e geografia) non solo non hanno visto migliorare la loro situazione, ma vedono pesare ancora di più le distorsioni di una crescita anomala.
Il mercato del lavoro italiano non è mai stato amico di chi arriva per la prima volta a cercare un’occupazione. Nell’ultimo periodo ha accentuato le difficoltà che storicamente pesavano sulla prima transizione verso il lavoro. Contratti anomali e bassi salari son più accentuati fra i più giovani che nella media di tutti i lavoratori. Il rischio di un lavoro che non permette autonomia economica è cresciuto ancora. In più sta emergendo che il 30% dei giovani che hanno titolo di studio universitario sono impiegati in ruoli che non richiedono le loro competenze. In un Paese che ha ancora una bassa percentuale di lavoratori con una formazione terziaria non riusciamo a utilizzare appieno le competenze di chi ha investito nella formazione.
Ovviamente quanto pesa in modo generale per i giovani è ancora più accentuato per le donne e nel Mezzogiorno.
Per quanto si cerchi di fare per correggere le storiche distorsioni contro il lavoro femminile ancora adesso i dati del mercato del lavoro ci indicano un forte ritardo nell’occupazione delle donne, con un tasso di oltre 10 punti inferiore alla media Ue-27e e l’impiego in settori dei servizi dove i bassi salari e i contratti anomali pesano di più. Sono la quota maggiore fra i Neet ed ciò si aggiunga che la crescita del part-time involontario, una delle distorsioni recenti del nostro mercato del lavoro, pesa per quasi l’80% sulle lavoratrici.
A sua volta il Mezzogiorno somma ai problemi di giovani e donne un accentuato calo demografico dovuto al sommarsi al calo delle nascite di una ripresa dei flussi migratori. È questa la causa di un accentuato squilibrio territoriale che viene registrato. L’invecchiamento della popolazione nei centri di provincia porta a un calo di servizi presenti sul territorio innestando un processo di degrado che arriva allo spopolamento di molte aree.
Affrontare i temi che permetterebbero di migliorare la situazione delle 3G porterebbe a fare calare anche il rischio povertà che Istat indica come il tema affiorante in tutti i capitoli del suo rapporto. Non si tratta però di inventare nuovi sussidi o bonus pagati con i soldi del Monopoli. Le 3G chiedono politiche di riforma e scelte di investimenti mirati. Le poche risorse che i nostri conti pubblici permettono vanno investite bene per una formazione che porti a un lavoro di qualità, per investimenti che facciano crescere la produttività, con riforme che modernizzino il sistema-Paese e con investimenti su quei distretti che permettano al Mezzogiorno di creare nuovi poli industriali di eccellenza.
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