Mentre la quarantena paralizzava il mondo, confinando le persone nelle proprie case e bloccando le attività, il lavoro agroalimentare non conosceva sosta e continuava a garantire il cibo sulle tavole di tutti. In diversi Paesi d’Europa è emerso il problema della carenza di manodopera in agricoltura, legato alle difficoltà, di tanti braccianti di origine straniera, di potersi muovere dopo il lockdown. Un problema reale, se solo pensiamo che in Italia si stima una carenza di manodopera stagionale tra 270mila e 350mila lavoratori.
Il fatto è che l’emergenza sanitaria ha coinciso con l’avvio di tante produzioni stagionali, come la raccolta di fragole, asparagi, primizie, o la preparazione delle colture estive e delle produzioni vitivinicole. Se pensiamo che lo scorso anno i lavoratori stranieri in agricoltura sono stati quasi 350 mila, oltre il 26% del totale, e che ad esempio la sola comunità rumena copre un terzo degli occupati stranieri, capiamo bene la dimensione del problema.
Davanti questo scenario ci sono state diverse reazioni e inevitabilmente, come spesso accade purtroppo nel nostro Paese, non sono mancati i pregiudizi ideologici. Tante le fake news che ancora circolano in Italia, tra chi nega che esista una carenza di manodopera, chi pensa che tutti gli italiani in difficoltà a causa della crisi siano disposti a lavorare la terra, chi pensa che il lavoro agricolo vada concepito come un insieme di mansioni occasionali, chi non perde mai occasione per dire che è colpa dei sindacati che non vogliono i voucher.
A partire da quest’ultimo punto, invece, andrebbe fatta un po’ di chiarezza. Di fatto, il voucher in agricoltura non è mai sparito del tutto, essendo sempre rimasto utilizzabile per studenti, disoccupati e pensionati. Volendo, oggi varrebbe anche per lavoratori in cassa integrazione o percettori di reddito di cittadinanza. Come Fai Cisl non siamo contro il voucher per pregiudizi, ma per un dato di fatto: in agricoltura serve solo a far saltare le tutele su previdenza, malattia, maternità. Già nel 2018, il cosiddetto “decreto dignità” ne aveva esteso l’uso. Si parlava di 50 mila nuovi posti di lavoro. Ma nessuno li ha mai visti. Oggi questo strumento può essere usato per 4 ore di lavoro continuativo e nell’arco di 10 giorni, senza il limite della durata minima giornaliera.
Dobbiamo chiederci se sia giusto, in nome dell’emergenza sanitaria, andare oltre questi limiti. La risposta è no, a meno che non si voglia precarizzare ancora di più un lavoro che, essendo per sua natura stagionale, ha sempre avuto una contrattazione garante della massima flessibilità, oggi persino del lavoro a chiamata giornaliera. E a meno che non si voglia tornare ai tanti abusi del passato, quando il voucher senza paletti in agricoltura produceva tante occasioni di lavoro nero e sfruttamento. Di irregolarità in Italia ne abbiamo fin troppa. Gli ultimi dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro ci invitano a non abbassare le difese proprio ora. Nel 2019 sono stati coinvolti nei controlli 1.488 lavoratori agricoli, 751 dei quali occupati in nero. Tra questi, 533 stranieri, 205 clandestini e 13 italiani. Su 44 aziende controllate, gli ispettori dell’Inl hanno emesso 93 notizie di reato per intermediazione illecita di manodopera con sfruttamento del lavoro. Il tasso di irregolarità registrato è più del 59%, superiore di oltre 4 punti percentuali rispetto al 2018. Non si può dunque pretendere di rispondere alla crisi attuale, e di progettare la rinascita del Paese, con scorciatoie che mortificano ulteriormente la contrattazione e la dignità del lavoro.
Altre soluzioni ci sono, e come organizzazione sindacale non abbiamo mancato di fare le nostre proposte. A partire dal bisogno principale, che è quello di migliorare l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Questione che denunciamo da tempo anche in chiave preventiva contro i fenomeni di caporalato. Quel che chiediamo è di valorizzare il ruolo degli enti bilaterali territoriali, come indicato dalla stessa Legge 199/2016 contro il caporalato. A chi non sa cosa siano, ricordo che questi enti sono presenti in ogni provincia e sono costituiti sia dai rappresentanti dei lavoratori che dalle parti datoriali. Già oggi esercitano tante funzioni basilari, soprattutto sulla formazione e la sicurezza. Sono queste le sedi più idonee per garantire oggi sia un più efficiente mercato del lavoro che un capillare controllo sull’applicazione del Protocollo per la salute.
Ci sono poi tutta una serie di altre misure da intraprendere per rispondere alla crisi attuale. Ad esempio i corridoi verdi tra Stati europei, che avevamo proposto e sui quali c’è il via libera della Commissione europea, per facilitare gli spostamenti dei lavoratori agricoli stagionali. Ora la palla passa alla capacità del nostro Governo di stipulare accordi con gli specifici Paesi di provenienza. Inoltre, nel cura Italia è stata accolta la nostra proposta di estendere i permessi di soggiorno per lavoro stagionale fino al 31 dicembre. Così come è stato previsto che la visita medica dei lavoratori stagionali varrà un anno, snellendo le procedure per lavoratori e imprese.
Serve poi una regolarizzazione dei braccianti di origine straniera presenti sul territorio ma invisibili per lo Stato italiano, il fisco e la nostra economia. In questi giorni se ne sta occupando soprattutto il ministero degli Interni, come è normale che sia. È una proposta che avevamo fatto da ben prima dell’attuale emergenza e da molto prima che lo facesse il Portogallo. L’appello è giustificato da diversi aspetti: liberare queste persone dai ghetti e dai ricatti dei caporali sarebbe anzitutto un gesto di civiltà, ma anche una risposta al fabbisogno di tante imprese che operano nella legalità. Ora servirebbe anche per garantire ben più sicurezza sotto il profilo sanitario.
Secondo i nostri studi, per fare emergere le produzioni agricole sommerse e regolarizzare chi ha esperienza in agricoltura, basterebbe regolarizzare circa 400mila irregolari. Ma non riduciamolo a un problema di numeri. Dietro questi dati ci sono persone, storie, comunità. E accanto a loro anche tanti italiani che non si rassegnano alla logica delle baraccopoli, delle persone concepite come semplici braccia da lavoro. Anche su questo il Paese non merita l’ennesima battaglia ideologica.
La vera sfida è dunque ripartire su tutte quelle attività stagionali che stanno soffrendo, ma dobbiamo offrire a tutti, italiani e non, concrete possibilità di lavoro e di integrazione al reddito. Non dimentichiamo di guardare ai problemi attuali dentro un contesto più generale, in cui l’operaio agricolo è l’ultimo anello di una catena che nella grande distribuzione ha un vero e proprio imbuto. Da qui le nostre battaglie per una redistribuzione della catena del valore lungo le filiere. È esattamente il contrario della logica del voucher.
Il lavoro agricolo non può essere equiparato a quello di un giardiniere che fa potature una volta l’anno in un condominio. Deve essere sostenuto con la buona contrattazione, che garantisce più soldi in tasca agli operai, ma anche più formazione e qualificazione, più tutele sanitarie per il lavoratore e la propria famiglia. Poi con politiche ad hoc, ad esempio eliminando definitivamente le aste al doppio ribasso e tutte quelle speculazioni che mortificano il lavoro che c’è dietro un prodotto italiano agroalimentare. Non è un caso se tanti operai polacchi non vogliono rientrare in Italia, ma si stanno spostando in Germania, dove per rispondere alla crisi di manodopera agricola sono state offerte migliorie contrattuali, anziché voucher. Questo dovremmo fare.