Tutti gli articoli, interviste e commenti dedicati al lavoro che compaiono in questo i giorni partono dalla constatazione che il tempo sta per scadere. Cosa mai è atteso con tanta trepidazione? La soluzione al pasticcio creato da un comitato di pseudoscienziati su Astrazeneca? No. È la scadenza della proroga del blocco dei licenziamenti che tiene col fiato sospeso forze politiche e sindacali. Come tutti i temi che diventano simbolici sta creando complicazioni alle scelte che il Governo deve compiere per rispettare i tempi di realizzazione delle riforme indispensabili per l’attuazione del Pnrr.
Si arriva all’ennesima pantomima sulla necessità di prorogare il blocco perché nessuno ha cercato di avviare in tempo utile una riflessione che tenesse conto delle evidenze e delle necessità. È solo l’ultimo caso di sottolineatura la dichiarazione del Commissario europeo al lavoro che ci ricorda che congelare il mercato del lavoro crea più problemi di quanti se ne vorrebbero risolvere e che ciò che serve sono riforme rapide e soluzioni mirate settore per settore.
È dall’inizio della pandemia che si valuta come l’asimmetria indotta dalla crisi colpisce in modo diverso i settori economici e che misure di intervento senza distinzioni comportano costi. Se all’inizio l’estensione della Cig ed il blocco dei licenziamenti poteva essere giustificato per avere il tempo di analizzare e programmare interventi mirati, le continue proroghe hanno portato a scaricare sui meno tutelati i costi della crisi e hanno bloccato anche le possibilità per poter utilizzare la scarsa domanda di lavoro che comunque si poteva presentare.
I dati di questi giorni sull’aumento della povertà, già ampiamente trattati sul Sussidiario da altri commentatori, confermano che le scelte rigide che erano alla base degli interventi di sostegno hanno spesso mancato il bersaglio lasciando senza aiuto chi più ne aveva bisogno.
Le proposte di intervento non sono mancate. È evidente che il blocco di questo periodo ha accelerato cambiamenti tecnologici, organizzativi e di costume che avrebbero comportato un grande sommovimento sul mercato del lavoro. La principale tutela dei lavoratori nell’ambito della grande trasformazione che interesserà tutti i settori dell’economia si è detto che risiede nella difesa della loro occupabilità e che la formazione giocherà un ruolo fondamentale. Da queste constatazioni di base si articola l’elenco delle scelte degli interventi di riforma che dobbiamo affrontare.
L’inizio non può che essere il nodo dei percorsi scuola-lavoro. La difficoltà dell’inserimento dei giovani al lavoro nasce da un disallineamento che riguarda l’assenza di esperienze di alternanza e il ritardo con cui cresce il sistema di formazione professionale duale, dai corsi di base agli Its. Per completare il quadro delle tutele del lavoro giovanile vanno aboliti contratti di stages e tirocinio non curricolari e sostituiti con contratti di lavoro reali. Più che sussidi ai giovani va assicurato un nuovo welfare e la difesa per un lavoro di qualità.
Va poi finalmente decisa la forma che devono prendere le politiche attive del lavoro. Dalla definizione della governance fra Stato e Regioni nell’ambito dell’Agenzia nazionale riformata alla struttura del sistema informativo nazionale e dei sevizi minimi di base, comuni per tutto il territorio nazionale, che definiscano cosa si offre a chi è in cerca di lavoro. È nell’ambito delle politiche attive che si deve intervenire con i programmi di formazione e difesa delle competenze dei lavoratori. Sono sia interventi preventivi a difesa dell’occupazione nelle fasi di trasformazione dell’impresa che a sostegno delle fasi di transizione lavorativa del lavoratore.
Un polo di programmazione unico sia per la definizione di programmi a sostegno dell’occupabilità delle persone, sia per la presa in carico di chi è in fase di ricollocazione deve poter contare anche sul governo delle risorse destinate al sostegno al reddito delle perone coinvolte. È essenziale per rendere effettivo un meccanismo di condizionalità, che in Italia non ha mai funzionato, ma anche per poter gestire al meglio i percorsi di reinserimento per i più fragili.
Resta poi l’indispensabile riforma degli ammortizzatori sociali sia perché serve uno strumento universale, sia per superare l’abuso della Cig, utilizzata ormai per tutti i casi di crisi, indipendentemente dalla probabilità di ripresa della produzione. È tema più complesso della semplice revisione degli strumenti. In parte dovrebbe essere assorbito dai sistemi di sostegno al reddito previsti per chi perde il lavoro ed è preso in carico dai servizi di politica attiva. Va però operato un ridisegno complessivo dei cosiddetti strumenti del workfare. Oggi sono finanziati per larga parte da trattenute sul lavoro che però riguardano solo parte delle imprese e dei settori produttivi. L’universalizzazione, comprendente anche quota del lavoro autonomo, richiede di rivedere la contribuzione e prevedere inoltre di spostare su nuovi strumenti di sostegno risorse delle fiscalità generale o recuperate dalla revisione delle spese sociali.
Come si vede, volendo avviare le proposte per operare le riforme richieste dal Pnrr e dall’Europa sul lavoro, il grosso dei temi e delle elaborazioni non riguardano minimamente il blocco o il sistema dei licenziamenti.
Eppure la piattaforma sindacale con cui si chiama alla mobilitazione (pudicamente però convocata di sabato) dedica il 90% delle argomentazioni ai rischi di disastro sociale qualora non si preveda di estendere il blocco dei licenziamenti almeno fino a ottobre e poi, nelle ultime tre righe, si citano formazione, ammortizzatori sociali e politiche attive del lavoro, giusto per ricordare che servirà altro. Insomma, una vera e propria inversione delle priorità rispetto alle giuste ragioni del mondo del lavoro per chiedere tempi certi per riforme indispensabili.
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