Il recente bollettino Istat sull’andamento del mercato del lavoro nel secondo trimestre del 2021 fornisce anche un’interessante valutazione delle perdite occupazionali rispetto alla soglia massima dei posti di lavoro, oltre 2,5 milioni, registrata nel secondo semestre del 2019.
La riduzione dei posti di lavoro ha raggiunto il suo apice (-1,2 milioni) nel secondo trimestre del 2020 in coincidenza delle drastiche misure di distanziamento, seguita da un consistente recupero di 523 mila occupati nei 12 mesi successivi, tra i quali 338 mila nel secondo trimestre dell’anno in corso. L’accelerazione della ripresa fa ben sperare, ma mancano ancora all’appello 678 mila posti di lavoro, con una particolare di incidenza delle donne (-370 mila) e dei giovani under 34 (-199 mila). Per quest’ultima componente la dinamica della ripresa risulta particolarmente rapida, mentre le perdite più significative, circa mezzo milione, vengono riscontrate nella fascia di età tra i 35 e i 49 anni.
A trascinare la ripresa sono stati i contratti a termine (+573 mila), tornati sopra il 16% del totale dei rapporti di lavoro, dopo essere stati i più penalizzati dalle misure di distanziamento e i meno salvaguardati dal blocco dei licenziamenti, e che ora stanno beneficiando della ripresa delle attività nei comparti dei servizi. In generale, il recupero delle perdite rispetto la fase pre-Covid risulta pressoché completato per i settori dell’agricoltura e della produzione manifatturiera, e persino superiore al periodo precedente nel settore delle costruzioni. Mentre è ancora distante nei comparti dei servizi, in particolare del commercio, degli alberghi e della ristorazione, che nel complesso rimangono deficitari per 768 mila impieghi. La distribuzione delle perdite occupazionali nel territorio risulta meno squilibrata rispetto alla crisi economica 2008-2014, con una parziale accentuazione per le regioni del Centro Italia.
I lavoratori autonomi (-279 mila) continuano a subire perdite superiori alla media nonostante la ripresa dell’economia. Il sintomo di una crisi che per alcuni aspetti ha caratteristiche strutturali. Altrettanto consistente (-180 mila occupati, -7,7%) il calo dei lavoratori stranieri, con un’incidenza di gran lunga superiore a quella degli italiani.
Operai, impiegati, in particolare i profili tecnici e specializzati sono tornati sui livelli precedenti la crisi. In grave sofferenza rimangono in particolare gli addetti ai servizi e i lavoratori meno qualificati.
L’insieme di queste tendenze conferma che le misure adottate per contenere le ricadute occupazionali della crisi, a partire dal blocco dei licenziamenti, si sono rivelate efficaci per i settori che hanno retto meglio l’impatto della crisi, e per i segmenti più tutelati del mercato del lavoro, ma molto meno per quelli caratterizzati da un’elevata mobilità del lavoro, per le donne, i giovani e gli stranieri.
Con l’ausilio di altre rilevazioni, vedi l’indagine periodica Excelsior ministero del Lavoro sulla domanda di lavoro delle imprese, è possibile fare alcune riflessioni più qualitative sulle prospettive dell’occupazione.
Nel breve periodo le possibilità di un ulteriore recupero di posti di lavoro è legata alla completa ripresa delle attività dei servizi dedicati alle persone e alla collettività. Che dipende, è bene ricordarlo, dal completo successo della campagna di vaccinazioni. Ma non sarà un processo lineare. Per buona parte di questi comparti la ripresa dei consumi sarà influenzata dai cambiamenti degli stili di vita e dall’impatto delle tecnologie digitali, destinati a mutare le caratteristiche dell’offerta dei servizi, con un ricambio imprenditoriale e un aumento della mobilità dei lavoratori. In negativo dobbiamo dare per scontate le chiusure delle aziende che erano già in difficoltà prima della crisi Covid.
Nel medio periodo i comparti della sanità, dell’istruzione, dell’assistenza e dei servizi alle persone offrono ampi margini di crescita. Ma questo dipenderà soprattutto dall’evoluzione del nostro modello di welfare, che attualmente penalizza la crescita sostenibile della domanda di servizi delle famiglie per la cura dei figli e delle persone anziane.
Un altro fattore che dovrebbe essere affrontato con più energia è l’aumento della domanda di personale delle imprese che non trovano lavoratori disponibili, circa un terzo delle professioni richieste, e che coinvolge con diverse intensità i profili di alta e media qualificazione, le figure tecniche e specializzate, e mansioni che possono essere svolte con complementi di formazione facilmente accessibili.
Questo fenomeno cresce in parallelo all’aumento dei disoccupati di lunga durata, dei giovani che non studiano e non lavorano, del numero delle persone scoraggiate. Nell’insieme 5,5 milioni di persone. Un fenomeno che non trova riscontri di questa portata nel complesso dei Paesi sviluppati. Sono il frutto delle nostre carenze storiche delle politiche del lavoro: l’incoerenza dei percorsi scolastici e formativi rispetto all’evoluzione delle organizzazioni produttive e del mercato del lavoro, l’indisponibilità a svolgere mansioni che comportano fatica o disagi lavorativi in termini di orari e mobilità, la carenza di servizi che conciliano il lavoro con i carichi familiari. Ma anche frutto del degrado dei percorsi educativi che tendono in vari modi a separare gli stili di vita e di consumo dall’esigenza di contribuire attivamente alla formazione del reddito. Un tema trascurato perché interroga la qualità dei valori che orientano i comportamenti individuali e collettivi.
Da più di 20 anni buona parte di queste carenze sono state compensate con la crescita del numero dei lavoratori immigrati. Ma, per la prima volta, il tasso di occupazione degli stranieri risulta inferiore a quello degli italiani per effetto dell’aumento del numero dei disoccupati, attualmente circa 600 mila, che, sempre secondo l’Istat, ha comportato un parallelo incremento del numero delle persone in condizione di povertà assoluta (il 29% sul totale di quelle residenti in Italia).
In queste condizioni, pensare di risolvere le contraddizioni del nostro mercato del lavoro con l’ingresso di nuovi immigrati con bassa qualificazione è una cosa priva di senso. Molto più realistica l’esigenza di coinvolgere nelle politiche attive gli immigrati che perdono il lavoro per offrire loro nuove opportunità.
Questi temi interrogano la qualità delle nostre politiche del lavoro. Nonostante i fallimenti storicamente conclamati, le proposte avanzate dal ministro del Lavoro Andrea Orlando fanno ancora leva sul binomio rappresentato dalla (ennesima) riforma degli ammortizzatori sociali, rivolta a estendere il volume e la durata dei sostegni al reddito, e sul potenziamento dei servizi pubblici per l’impiego, che attualmente intermediano meno del 3% dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, collocamento obbligatorio compreso.
Abbiamo avuto modo di esprimere le nostre critiche nel merito di questi provvedimenti. Ma al di là delle polemiche, stupisce in particolare l’assenza di un approccio pragmatico per rimediare parte di essi nel breve e medio periodo. In particolare, per favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro nei diversi ambiti territoriali, con il coinvolgimento delle parti sociali e dei servizi per l’impiego pubblici e privati, per inserire nelle imprese almeno una parte dei beneficiari dei sostegni al reddito per le mansioni che non richiedono sofisticati percorsi di riqualificazione.
A fronte dell’accettazione di un lavoro a termine si potrebbe prevedere il ripristino delle indennità di sostegno al reddito per gli interessati nel caso di una mancata riconferma del rapporto di lavoro. Una riduzione mirata del cuneo fiscale sulle retribuzioni contrattuali più basse potrebbe rendere più appetibili le retribuzioni nette.
L’efficacia delle nuove politiche del lavoro dipende anche dalla capacità di mettere in campo soluzioni creative e pragmatiche, coinvolgendo tutti gli attori che possono contribuire a migliorare la qualità delle risorse umane e a personalizzare i percorsi di inserimento lavorativo sulla base dei fabbisogni delle imprese e delle persone.
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