L’accordo raggiunto nella serata di martedì, festività dei Santi Pietro e Paolo, patroni di Roma, a palazzo Chigi su una proroga selettiva del blocco dei licenziamenti, l’aggiunta di ulteriori 13 settimane di Cassa integrazione gratuita per tutte le imprese in crisi, la stipula di un Avviso comune tra Cgil, Cisl, Uil e parti datoriali per impegnare le imprese a utilizzare tutti gli ammortizzatori sociali e istituti similari prima di arrivare al licenziamento e l’avvio di un tavolo di verifica dello stesso accordo, è certamente un passo positivo.
La situazione è eccezionale e ha bisogno di risposte all’altezza dei rischi che si corrono. Più volte, come sindacato, abbiamo evidenziato che uno sblocco di tutti i licenziamenti avrebbe portato rischi di conflitti sociali elevati e quindi questo accordo tra Governo e parti sociali rappresenta una comune assunzione di responsabilità.
Va ricordato che dall’inizio della pandemia e del lockdown, praticamente da marzo 2020, sindacati e imprenditori hanno svolto un ruolo fondamentale per permettere a moltissime imprese di poter continuare a lavorare, grazie agli accordi sui Protocolli anti-contagio, riaggiornati ad aprile di quest’anno con anche un nuovo Protocollo sulle vaccinazioni nei luoghi di lavoro. È stato un percorso importante, scarsamente valorizzato, che ha dimostrato l’esistenza di un sistema di relazioni industriali mature e pronte a rispondere, attraverso la contrattazione, allo shock causato dalla pandemia.
L’accordo di martedì è quindi un prosieguo dei precedenti e però dovrebbe anche essere il primo della fase di riavvio delle attività e del Paese intero.
La ripartenza mette sul tavolo, oltre gli effetti sull’impatto del Covid-19, anche però i soliti vecchi problemi del mercato del lavoro italiano. Se, come scrivono molti osservatori, solo l’Italia ha avuto un blocco generalizzato dei licenziamenti, è altrettanto vero che l’Italia ha un mercato del lavoro farraginoso, poco trasparente, con un livello patologico di nero che non ha eguali in quasi tutta l’Unione europea e una sostanziale assenza di politiche attive. Inoltre, nonostante il blocco si sono comunque persi un milione di posti di lavoro circa, perché non sono stati rinnovati gran parte dei contratti a termine.
La crisi causata dalla pandemia non è stata uguale per tutti e ugualmente la ripresa non sarà uguale per tutti. Da questa ovvietà deve discendere un approccio complesso che tenga conto della diversità sostanziale tra settori economici ma anche tra lavoratori, dovuta sempre al settore economico di riferimento ma anche al grado di occupabilità delle singole persone.
Veniamo alla questione delle politiche attive del lavoro, mai avviate nella realtà, con l’aggravante della profonda e ormai inammissibile disomogeneità tra sistemi regionali dei servizi all’impiego. La pandemia ha ulteriormente dimostrato che purtroppo tra le Regioni non c’è una competitività con l’obiettivo di essere migliore l’una dell’altra. Purtroppo c’è una gara ad alzare confini e steccati e creare particolarità per pure logiche di potere, che nulla giovano ai semplici cittadini che anzi spesso ne subiscono gli effetti negativi, a cominciare dall’avere regole diverse per ciascuna regione su moltissimi temi comuni.
La questione delle politiche attive diviene ancor più centrale dovendoci confrontare nei prossimi mesi e anni con le cosiddette transizioni gemelle, quella digitale e quella ecologica. I Centri per l’impiego e le agenzie private dovranno collaborare sempre di più tra di loro per accompagnare i lavoratori in percorsi di riqualificazione e adeguamento delle competenze e magari di riallocazione in settori economici diversi.
L’Avviso comune, inoltre, riteniamo sottenda alla necessità di un salto di qualità di tutta l’imprenditoria, in particolare riguardo agli aspetti organizzativi e di gestione delle risorse umane. L’impegno delle imprese a utilizzare tutti gli strumenti istituzionali e contrattuali a disposizione e previsti dalla legge (per esempio, cassa integrazione, ma anche contratti solidarietà difensivi ed espansivi, intese di riduzione/rimodulazione orario di lavoro) dovrebbe essere uno stimolo a una rilettura della propria organizzazione del lavoro e a un approccio proattivo rispetto alle relazioni industriali. Per far questo occorre che la cultura imprenditoriale consideri le persone una vera e propria risorsa delle aziende e non solo una voce di costo.
Questo problema fa il paio con un’altra questione di fondo del sistema imprenditoriale italiano e cioè la piccola e piccolissima dimensione delle imprese, questione che fa sì che hanno più occupati i bar del centro delle grandi città che non molte imprese manifatturiere che magari esportano pure. Ma questo della dimensione è un tema sollevato da moltissime ricerche, a cominciare dalla Banca d’Italia.
La ripartenza del Paese deve tutelare il lavoro e i lavoratori e sarebbe pericolosa un’ulteriore destrutturazione del sistema imprenditoriale proprio in vista dell’auspicato avvio degli investimenti previsti dal Pnrr. È il momento di tenere insieme il Paese a cominciare proprio dal mondo del lavoro, questa è una delle ragioni che spingono la Cisl a chiedere un nuovo Patto Sociale, perché occorre ripartire insieme assumendo ognuno la propria parte di responsabilità e garantendo il massimo impegno per il rilancio dell’Italia.
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