Fra rilevazioni statistiche, previsioni da rilevazioni demoscopiche e analisi da dati amministrativi, abbiamo ogni mese più di un’indagine che cerca di fare luce sul mercato del lavoro del nostro Paese. Tale mole di dati induce spesso a commenti esagerati di fronte a scostamenti infinitesimali. Un +1% di occupati viene salutato come il raggiungimento di un traguardo insperato. così come si è assistito a commenti disperati di fronte a un aumento del 2% dei disoccupati nonostante fosse un segno di ritorno ad avere fiducia nel lavoro perché coincideva con una cresciuta quota maggiore degli occupati.
La necessità che appare più urgente è avere un cruscotto di dati che ci indichino gli andamenti assoluti e percentuali delle variabili indicative delle problematiche di fondo del nostro mercato del lavoro. Il dato più importante resta a mio parere il tasso di occupazione complessiva. Sul totale della popolazione in età lavorativa noi abbiamo attivi circa i due terzi delle persone e un terzo non si dichiara disponibile per qualsiasi attività. Guardando la popolazione nel suo complesso, abbiamo 22,8 milioni di italiani che lavorano e 36,8 milioni che non lavorano. Gran parte di questi cittadini sono fuori dal mercato del lavoro perché troppo giovani o troppo vecchi. Sono però troppi (13,7 milioni), rispetto agli altri Paesi europei, quelli che sono in età lavorativa e non svolgono nessuna attività.
Il tasso di occupazione ha raggiunto il 59,2% e il tasso di attività il 64,7%. L’obiettivo fissato dalla strategia europea per l’occupazione per il tasso di occupazione nell’eurozona è del 75%. Come si vede noi siamo molto lontani dall’obiettivo anche considerando il tasso di attività. La situazione demografica porterà a un peggioramento della situazione dato che il ritiro di classi di età numerose, per raggiunti limiti di età di pensionamento, sarà solo parzialmente coperto da nuove generazioni meno numerose che arriveranno sul mercato del lavoro.
Pur in presenza di un basso tasso di occupazione registriamo una crescente tensione fra domanda e offerta di lavoro dovuta a un forte scarto fra professionalità richieste dal sistema produttivo e preparazione di chi è in cerca di lavoro. Riassumendo, lavoriamo in pochi, studiamo troppo a lungo ma su percorsi formativi non adeguati alla domanda di competenze che viene dall’economia.
La lettura dei problemi del mercato del lavoro che mette al centro le forme contrattuali, come nel caso di molti dei dati diffusi dai tanti commenti mensili, non riesce ad aiutare a individuare quanto servirebbe mettere in moto per migliorare la situazione complessiva ottenendo più lavoro e di qualità.
Facciamo un esempio prendendo in considerazione un fenomeno internazionale che è stato rilevato nel periodo post-Covid. A partire dagli Stati Uniti si registra un incremento di dimissioni volontarie fra i dipendenti pur con contratti a tempo indeterminato. La tesi è che è in corso una ricerca di lavoro meno stressante, più interessante e con più gradi di libertà organizzativa che deriva dalle esperienze e riflessioni sviluppate nel periodo di lockdown e smart working.
Anche nei Paesi europei e nel nostro emerge una crescita delle dimissioni volontarie. Dopo poco tempo le analisi sui movimenti del mercato del lavoro fanno però emergere, per quanto riguarda l’Italia, che la quasi totalità delle dimissioni volontarie riguarda lavoratori con forti professionalità, molto richieste da settori in espansione, e sono di fatto passaggi ad altre imprese motivati soprattutto da migliori condizioni economiche e contrattuali.
Analisi puntuali su molti contratti con durata fra la singola giornata e il mese, parliamo del settore privato, riguardano particolari situazioni di professioni, per esempio tutte le attività artistiche o la realizzazione di eventi, che sono per loro natura con contratti brevi, ma sono lontane dalla solita identificazione tra contratti brevi e precarietà.
Ultima osservazione sulle distorsioni contrattuali è quella del part-time. La crescita di quello involontario è spesso indicatore di sottoccupazione e anche, in troppi casi, copertura di lavoro nero. Per colpire questo fenomeno negativo si è però penalizzato e mai sostenuto il part-time volontario che si è dimostrato contratto utile per aumentare l’occupazione di quanti, per ragioni famigliari o per scelta, non possono/vogliono lavorare a tempo pieno.
Emergono pertanto da questi esempi parziali problematiche del mercato del lavoro che richiedono indicatori diversi e strumenti di intervento diversificati. Iniziative massicce di offerta di formazione professionale e di contratti di apprendistato duale sono indispensabili per affiancare un sistema di politiche attive del lavoro che portino ad aumentare il tasso di occupazione restringendo l’area di mismatching esistente fra domanda e offerta di lavoro.
Contratti che tutelino la dignità di qualunque lavoro, indipendentemente dalla durata e dalle forme di partecipazione dei lavoratori, sono altrettanto fondamentali per leggere la partecipazione attiva delle persone al lavoro senza quel dualismo del mercato che è tuttora amplificato dall’illusione che un unico contratto rigido sia la garanzia di tutela dei lavoratori.
Resta in conclusione da segnalare un aspetto più generale che subisce gli impatti di un mercato del lavoro imballato e che dà lavoro a troppe poche persone. Il nostro sistema di welfare dipende largamente dalla quota di salario che contribuisce a finanziare la rete di tutele sociali, dal sociosanitario alle pensioni. Allo squilibrio sempre più ampio contribuirà anche l’inverno demografico, peggiorando la situazione fra quanti lavorano, e quindi contribuiscono a finanziare il sistema di welfare, e quanti non lavorano e creerà a breve una crisi del sistema di servizi alla persona a cui siamo abituati.
È uno degli indicatori della nuova crescita della divaricazione sociale e della crescita delle nuove povertà. Giustizia sociale vuole che ci sia recupero fiscale dell’evasione e una maggiore contribuzione di chi si è arricchito con il lavoro del nostro Paese. C’è però ancora grande spazio perché la crescita occupazionale e del tasso di attività complessivo contribuiscano a migliorare la qualità del lavoro. Un uso accorto degli investimenti del Pnrr non può non avere questo come obiettivo primario.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.