La discussione programmatica per la formazione del nuovo governo non ha dedicato molto spazio ai temi del lavoro. Si capiscono i motivi tattici che hanno indotto a mettere da parte temi che potrebbero essere ritenuti divisivi, perché mettono in discussione misure prese dal governo appena sostituito.

Vi è poi una convergenza nel porre al primo posto le politiche a carattere redistributivo, che sono ritenute prioritarie e devono essere rese compatibili con i vincoli che pone il nostro forte indebitamento.



Per questo i provvedimenti relativi al taglio del cuneo fiscale, per gratificare la parte salariale in quota maggioritaria, e la definizione del salario minimo, in accordo con la valorizzazione dei contratti firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi, sono i punti prioritari delle scelte legate al mondo del lavoro che saranno realizzate.



Sarà bene però ricordare anche al nuovo governo lo stato di fondo del nostro mercato del lavoro e cosa lo differenzia ancora in modo netto rispetto ai paesi europei a noi più immediatamente confrontabili.

Basiamoci pure sui dati del 2018, visto che l’anno in corso, anche per l’inutilità di misure come il decreto dignità, segna per ora una stagnazione della crescita occupazionale ed è anzi prevedibile, a causa del profilarsi di una recessione produttiva internazionale, che segnerà un dato negativo col finire dell’anno.

Il 2018 ha segnato invece il massimo storico degli occupati del nostro Paese. Risultavano occupate 23.380.000 persone. Erano 23.090.348 nel 2008 all’avvio della crisi ed erano scese al minimo nel 2013 con 22.190.535 occupati.



La composizione degli occupati è parzialmente mutata. Sono aumentate le donne (42,1% del totale occupati), che portano il tasso di occupazione femminile al 49,7%. Ciò anche per la maggiore disponibilità a richieste di flessibilità della domanda di lavoro nei servizi del terziario. L’occupazione maschile perde invece il 2,8% nel tasso di occupazione, pagando il calo di occupati nell’industria e nelle costruzioni.

Se guardiamo però il confronto con i paesi dell’Unione europea, emerge come il tasso di occupazione italiano risulta lontano dagli obiettivi europei. È il 67,7% nella Ue ed è del 58% nel nostro paese. Penultimo davanti alla Grecia come in molte statistiche economiche.

Ma oltre questo dato complessivo emerge come a frenare il nostro tasso di occupazione complessivo siano i giovani e le donne. Mentre il tasso di occupazione dei 55-64 anni è vicino alla media europea (52,2% in Italia e 57,1 nella Ue), il tasso di occupazione dei nostri giovani (15-24 anni) è del 17,1% contro il 34,7% Ue e per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile è 48,9% in Italia e 62,5% nella Ue. Se confrontiamo invece l’occupazione dei diversi settori professionali, emerge come nei servizi alle famiglie, nell’industria, in agricoltura e pesca il tasso di occupazione risulta più elevato dell’Ue a 15 Paesi.

Sono dati frutto della tradizione nazionale: industria, agricoltura e pesca sono settori di forte specializzazione, e spesso eccellenza, della nostra economia. Se andiamo a valutare dove abbiamo minori occupati, rispetto alla Ue a 15 paesi, emerge come soprattutto nel settore sanità e assistenza sociale si registrano quasi 1,5 milioni di occupati in meno dei paesi confrontabili per popolazione. In misura minore, ma sempre significativa, abbiamo meno occupati nell’istruzione, nella Pubblica amministrazione e in attività professionali e immobiliari.

Il ritardo nei servizi socio-sanitari spiega il picco dei servizi alle famiglie, ma ci indica che così si sacrifica la qualità dei servizi e dell’occupazione qualificata, cui si sopperisce con posti di lavoro a bassa qualificazione e minore reddito. Se dobbiamo fare una sintesi, la nostra occupazione complessiva risulta fortemente maschile, anziana e favorisce le basse qualifiche rispetto a quanto rilevabile nella stratificazione Ue.

Da qui considerazioni generali possono essere tratte. La mobilità sociale risulta sicuramente più difficile, i giovani a forte qualificazione trovano maggiore soddisfazione in altri paesi, una questione salariale pesa su molte occupazioni dequalificate, e tutte queste ragioni pesano anche su una domanda di consumi più bassa di quanto rilevato negli ultimi anni negli altri paesi europei.

È un nocciolo di questioni strutturali legate all’arretratezza di molti settori produttivi del Paese, che diventano freno a una crescita nella qualità dei servizi e della qualità del lavoro impiegata. Il caso degli stessi servizi al lavoro rende evidente quanto illustrato dai dati macro.

I nostri Centri per l’impiego hanno un decimo degli occupati che servirebbero per svolgere realmente servizi di politica attiva del lavoro. Sono orientati a svolgere solo attività burocratiche e amministrative, non attività di pro-attivazione dei disoccupati, né di incrocio fra domanda e offerta di lavoro. Gli occupati sono per lo più impiegati generici e mancano laureati e competenze manageriali per aumentare la qualità dei servizi necessari.

Puntare sull’aumento delle competenze dei lavoratori che entrano nel mercato e assicurare una formazione costante a chi è già inserito nel mercato sono compiti oggi indispensabili per tenere il passo di impresa 4.0. Senza però uno sforzo per aumentare la qualità del lavoro e i redditi da lavoro non si smuoverà una società bloccata e che sacrifica molte delle capacità e dei talenti che aspettano di essere valorizzati.