Il 21 aprile il Foglio pubblicava l’articolo “Il fallimento di Parisi all’Anpal in un dato: 423 su 1.650.000“. Il titolo costruito appositamente per suscitare scandalo, potrebbe indurre il lettore a credere nell’ennesimo “disastro” che riguarda Anpal. Mi tocca in questa sede spiegare due/tre cosette…
Premesso che non ho nessun interesse a difendere l’Agenzia, struttura che per effetto del Titolo V è svuotata da qualsiasi potere ed è costantemente obbligata a trovare soluzioni con le venti regioni anche sul colore della carta igienica usata nei Centri per l’impiego (pura follia “tafazzista”), tuttavia il perché l’Assegno di ricollocazione (i numeri sono riferiti a questo strumento di politica attiva) è fermo non è certo colpa sua.
Vediamo di spiegare la procedura e i tempi necessari alla sua attuazione: lo strumento di ricollocazione destinato ai percettori del Reddito di cittadinanza è stato introdotto a gennaio 2019 e successivamente modificato a marzo dello stesso anno, le linee guida dell’Anpal sono arrivate a dicembre, questo perché chiunque si occupa di consulenza della Pubblica amministrazione è consapevole che realizzare le procedure operative per un milione di individui non è una cosa che si può fare in una settimana e poi, diciamolo, mancavano le risorse (il numero di destinatari è mastodontico rispetto ai percettori di Naspi).
Lo strumento partito nel 2020 è durato pochissimo, si è interrotto perché c’è stato il lockdown e questo in buona parte spiega perché ci sono appena 900 assegnatari dell’Assegno di ricollocazione (Adr), mentre a regime dovevano essere diverse centinaia di migliaia, questo perché l’Assegno viene erogato in automatico appena si realizza il Patto del lavoro (escluse alcune particolari situazioni) e deve essere utilizzato dal beneficiario entro 30 giorni. Diciamo pertanto che mancano all’appello almeno 300mila Adr, non certo 1,6 milioni come scrive il Foglio. Infatti, del totale della popolazione “abile” al lavoro che è destinata alle politiche del lavoro, almeno mezzo milione è “esonerato” (prevalentemente per carichi familiari). Inoltre, il ritardo nella stipula è dovuto al fatto che servirebbero “almeno” 20mila Navigator per gestire un milione di persone.
A questo punto lo strumento avrebbe funzionato? Assolutamente no, la stragrande maggioranza dei percettori di Rdc è incollocabile, nemmeno “Nostradamus” potrebbe piazzarli sul mercato del lavoro, quindi neppure la migliore Agenzia del lavoro in circolazione distruggerebbe la propria reputazione, ovvero quella di fornire forza lavoro di qualità alle proprie aziende clienti.
Vorrei essere chiaro: l’idea stessa dell’Assegno di ricollocazione in generale non funziona. In tal senso, una valutazione Anpal dedicata alla prima sperimentazione dell’Assegno sui beneficiari di Naspi, attraverso un’analisi controfattuale dimostra come i trattati sono più “precari” del gruppo di controllo. Avete capito bene, coloro che non hanno preso l’Assegno avevano più possibilità di avere un contratto indeterminato e a questo aggiungiamoci che lo strumento inevitabilmente funziona bene nel Nord-Est (mentre la maggioranza dei precettori di Rdc è residente nel Mezzogiorno). Ovviamente, lo strumento potrebbe risultare efficace, come avviene nel Regno Unito, nel trasformare il percettore meridionale in “inattivo” proponendogli un’opportunità di lavoro precaria a basso reddito ad Aosta. Infine, a mio modesto parere, sarebbe anche opportuno verificare il fenomeno “gaming”, ovvero fenomeni di manipolazione dei risultati.
Insomma, l’Assegno di ricollocazione è uno strumento da “rivedere”, troppo “spinto” verso la ricollocazione, in questo modo gli attori accreditati non saranno mai in grado di coprire i costi necessari per gestire la politica attiva. Tanto che si parla di Adr+ (formazione, digitalizzazione e certificazione di competenze) che rappresenta sicuramente un passo avanti, ma ho paura che risulti non ancora sufficiente per un target di super-svantaggiati come i percettori del Rdc.
A questo punto torno ad Anpal e al suo Presidente (il quale paga in prima persona tutta l’inesperienza del Movimento 5 stelle in materia di politiche del lavoro), reo di tutte le disfatte di questo Paese in termini di politiche attive del lavoro; ricordo bene la “catastrofica” esperienza del 2008-2010 delle politiche attive del lavoro ai cassa-integrati in deroga, una grandissima abbuffata di formazione professionale (assolutamente inutile) con i beneficiari della misura che una volta “formati” tornavano ai Centri per l’impiego totalmente “depauperizzati” e non in grado di gestirli nella ricollocazione; oppure che dire del programma Garanzia Giovani, un “fallimento” annunciato in grado di realizzare effetti di spiazzamento, autoselezione dei partecipanti e del tutto incapace di coinvolgere i Neet o contrastare l’abbandono scolastico.
La stampa è sempre a caccia di perfetti capri espiatori di un sistema che ha invece nel digital divide dei suoi funzionari e di molti politici la peggiore criticità. Ad esempio, è assurdo che un numero impressionante di funzionari dei Centri per l’impiego o delle strutture regionali che si occupano di lavoro e formazione professionale non abbia un profilo Linkedin oppure non lo utilizzi correttamente, così come credere che serva questa benedetta “APP Lavoro” per incrociare domanda e offerta di lavoro (si ignora che il disoccupato e l’azienda possono usare Indeed, Monster, Infojobs, Subito Lavoro, WorkApp, ecc.). Non contento nella mia naturale frustrazione rispetto al tema, anche l’idea di “digitalizzare” questa Pa mi trova contrario, ad eccezione di una formazione di qualche migliaia di euro utilizzando un MOOC (corso online aperto e di massa), riciclando la lezione come tutorial.
Infine, ritengo che ai percettori del Rdc possono essere offerte quattro possibili soluzioni:
1) Progetti di “assistenza intensiva” (finanziati dalle Regioni), progetti di formazione professionale in piccoli gruppi di mutuo-aiuto, coordinati da un motivatore/psicologo, laboratori di simulazione d’impresa e se possibile Job Club o Work Experience nelle realtà locali.
2) Integrazione al reddito come avviene nel programma Universal Credit in Inghilterra per incentivare i percettori del Rdc a trovare lavoro.
3) Collocamento mirato con progetti dedicati presso associazioni o cooperative, sulla falsa riga di quanto realizzato nell’Art. 14 del D.Lgs. 276/2003.
4) Un “quasi-mercato” per le piattaforme digitali volto alla sviluppo di servizi innovativi dedicati ai target più svantaggiati, in modo che tali soggetti possano essere “notati” dalle imprese.
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