Arrivano ottime notizie dalla Spagna. La riforma dei contratti di lavoro approvata dal Governo per contenere la crescita dei contratti a tempo determinato ha portato a un buon risultato già nel primo quadrimestre dell’anno, periodo nel quale i contratti a tempo indeterminato sono risultati tre volte quelli registrati nell’intero 2021.
Un risultato così importante in un Paese che ha molte similitudini con il nostro ha subito ridato fiato al partito del “facciamo come in Spagna”. La questione se sia la forma contrattuale a determinare la qualità del lavoro e la presenza di tutele reali rimane sospesa. Si potrebbe dire che, come spesso succede, si guarda il dito perdendo di vista la luna.
Attenzione, non si vuole sostenere che non ci sia bisogno di intervenire per garantire più tutele e più riconoscimento economico al lavoro. Si vuole però capire e misurare l’effettiva efficacia dei provvedimenti senza fermarsi alle impressioni superficiali.
Basterebbe leggere il commento ai dati pubblicato su El Mundo per incominciare ad avere dubbi sul fatto che la ricetta spagnola sia esportabile. La riforma ha certamente portato una crescita dei contratti a tempo indeterminato, ma, avendo mantenuto alcune forme di contratto con orario limitato che preesistevano nella loro legislazione, ha prodotto un effetto a dir poco perverso se rapportato alla realtà italiana.
A fronte dell’aumento di contratti a tempo indeterminato abbiamo, infatti, un calo complessivo del numero di contratti a tempo pieno. Dunque l’incremento è relativo a contratti part-time e, soprattutto, oltre il 40% è costituito da contratti discontinui, cioè di fatto stagionali, ma a tempo indeterminato perché validi per un periodo indefinito.
Sono queste le forme di flessibilità che la riforma aveva previsto di mantenere e che effettivamente sono servite a mutare la forma dei contratti applicati, ma non è ancora dimostrato che avranno effetti sulla qualità complessiva delle tutele lavorative.
Ciò che sicuramente ha portato alla crescita di queste forme di contratto più stabile sono state le misure fiscali ed economiche che hanno penalizzato i contratti brevi. Le misure punitive che prima erano destinate ai contratti di durata fino ai 5 giorni sono state estese a quelli fino a 30 giorni, creando così uno spostamento verso altre forme contrattuali.
Questa parte degli interventi spagnoli contiene un’indicazione anche per il nostro sistema. Quando si è intervenuti in Italia contro i contratti a termine si sono colpiti quelli di lunga durata. La lezione spagnola indica invece la necessità di colpire quelli di breve durata, e nel nostro sistema sono da aggiungere gli abusi di stages e tirocini che non sono nemmeno contratti di lavoro effettivi, perché nascondono spesso forme di aggiramento delle tutele e dei minimi salariali.
Agire sulla forma e la durata contrattuale va quindi valutato in funzione dei meccanismi specifici del mercato dl lavoro nazionale per lasciare comunque margini di flessibilità, pur asciugando le forme dove spesso si nascondono abusi verso i lavoratori.
Allargando lo sguardo per vedere nuovi interventi legislativi mirati a correggere la crescita dei lavori poveri che si è accentuata negli ultimi anni vale la pena guardare alla riforma operata in Nuova Zelanda. In quello che è stato il primo Paese a introdurre una legislazione per la flessibilità del lavoro era crescente la preoccupazione per l’aumento di fasce di working poors. La risposta è stata l’introduzione di una norma che affida alla tutela del Governo, attraverso un’agenzia dedicata, l’obbligatorietà do arrivare a ridefinire i contenuti contrattuali a fronte della richiesta di un congruo (secondo il settore varia il numero minimo che è però molto contenuto) numero di lavoratori.
La ragione di questa soluzione sta nell’analisi svolta a monte e che ha individuato nel progressivo indebolimento della capacità di contrattazione dei lavoratori una decadenza dei salari, ma anche degli investimenti in innovazione e quindi della produttività. Il messaggio è quindi quello di stimolare anche nel settore dei servizi, anche quelli ad alta intensità di occupazione, interventi di innovazione che favoriscano la crescita dei salari.
La rappresentanza dei lavoratori ha esercitato storicamente un ruolo non solo di tutela dei propri iscritti, ma anche propulsivo di innovazione nei processi produttivi. Rimettere in moto questo processo con lo schierarsi dello Stato a tutela del funzionamento dei meccanismi contrattuali significa, senza togliere nulla alle regole di mercato, correggere le forti diseguaglianze cresciute con l’applicazione di norme liberistiche senza contrappesi.
Questa scelta che viene letteralmente dall’altra parte del mondo permette di allargare saggiamente lo sguardo verso cosa è indispensabile fare per uscire da una situazione per cui il lavoro risulta penalizzato ma non bastano gli strumenti unilaterali. I soli interventi legislativi calati dall’alto non riescono mai a essere risolutivi. Possono produrre effetti nel breve periodo, ma poi tornano a prevalere vizi e distorsioni che caratterizzano i mercati del lavoro di ogni Paese. Il nostro richiede poi in modo particolare che si agisca partendo dalla prima transizione della vita lavorativa, quella scuola-lavoro, e si tenga poi conto delle particolari situazioni del sistema produttivo e delle differenze territoriali.
La riflessione neozelandese dice che per fare riforme che affrontino in modo deciso il tema delle diseguaglianze è prioritario scommettere sulla capacità delle rappresentanze sociali di assumersi la responsabilità di trovare vie di crescita praticabili. Il lavoro vede al centro le persone e cercare di trovare meccanismi che assicurino il bene senza interventi delle persone e delle loro capacità si dimostra una perdita di tempo. Scommettere sui corpi intermedi è la premessa per fare poi riforme che non siano una tantum. ma cambiamenti radicati nella realtà.
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