Tradizionalmente i temi del lavoro non sono molto considerati nelle campagne elettorali delle forze di centrodestra. Un errore: appare come la conferma che le istanze social-sindacali si situino inevitabilmente a sinistra. Non è così da anni, basti ricordare i recenti successi della Lega nei distretti industriali del nord e centro Italia. Ancor prima, le intuizioni contenute nella legge Biagi, che hanno dato forma a una lunga stagione di tangibile riformismo non ispirato dai partiti progressisti. Forse anche per questo Giorgia Meloni ha dedicato una delle sue prime dichiarazioni sul programma proprio al lavoro, chiarendo che Fratelli d’Italia sta lavorando a un meccanismo premiante per le imprese che assumono e che il principio guida degli interventi deve essere “meno Stato, più libertà”.



Nell’attesa del dettaglio delle proposte dello schieramento unito, queste prime anticipazioni paiono individuare un cambio di passo interessante, tanto per il centrodestra (non più in soggezione su questo argomento), quanto per Fratelli d’Italia, che è erede (non dogmatico, a quanto pare) di una cultura di politica economica statalista. 



L’accento sulla libertà di fare, concetto storicamente associato alle forze conservatrici e liberali che si rifanno alla Dottrina sociale della Chiesa, permetterebbe al centrodestra di declinare un programma sul lavoro manifestatamente in controtendenza rispetto agli interventi del Governo Draghi, che aveva affidato questo dossier a una personalità di cultura dirigista come Andrea Orlando (mai apparso, inevitabilmente, in linea con alcune intenzioni del Premier).

Culturalmente il cambio di passo si avrebbe sancendo due principi guida, tra loro connessi, apparentemente di facile condivisione, ma alla prova dei fatti dimenticati dai Governi degli ultimi dieci anni: no a norme sanzionatorie, fondate sempre e solo sul sospetto dell’abuso e sull’idolatria della legge; sì a interventi di impronta promozionale, che incoraggino l’iniziativa dei singoli e dei corpi sociali, valorizzando in sussidiarietà la libera contrattazione più della legge.



Sono ovviamente numerose le conseguenze operative di questa concezione del ruolo dello Stato nella regolazione del lavoro. Tra le tante, è opportuno evidenziarne alcune che potrebbero rivelarsi discriminanti nel dibattito pre-voto, quantomeno tra gli addetti ai lavori, perché relative agli argomenti che saranno maggiormente utilizzati dal campo largo che va formandosi a sinistra.

Il lavoro povero è un problema reale del nostro Paese e non può essere ignorato. Tale situazione è principalmente generata dalle poche ore di lavoro dipendente (contratti di part-time di durata inferiore alla metà giornata), dal lavoro nero, dall’applicazione di contratti in dumping o dall’ingiusta remunerazione del lavoro indipendente, da sempre privo di tutele. 

Il salario minimo orario individuato per legge non è una soluzione reale, è una bandiera politica, che deve il suo successo anche dalla assenza nel dibattito di altre proposte. Azioni alternative potrebbero essere il censimento serio dei contratti collettivi maggiormente utilizzati tramite il codice univoco già costruito da Cnel e Inps, da comunicarsi anche in busta paga e non soltanto a fini statistici, per individuare gli abusi senza bisogno di forzare la storia delle relazioni industriali italiane con una legge di misurazione della rappresentanza. Il lavoro nero sarebbe contrastato in chiave promozionale dal ritorno dei buoni lavoro, gestiti digitalmente entro il limite annuo di 5.000 euro e rivolti tanto alle famiglie, quanto alle imprese; uno strumento realmente competitivo rispetto all’attivazione di un contratto di lavoro per la gestione di un rapporto soltanto occasionale. A riguardo dell’abuso del part-time, senza faziose discussioni sulla sua natura volontaria o involontaria, per periodi limitati lo Stato, invece di premiare l’inattività, potrebbe disporre delle indennità di “rabbocco” per i lavoratori a poche ore che permetta loro di superare la soglia di povertà assoluta. Infine, i lavori indipendenti possono essere tutelati rendendo obbligatori i compensi identificati dagli usi attraverso le Camere di Commercio.

Un secondo fronte di confronto è, già da tempo, quello relativo al Reddito di cittadinanza e alle politiche attive. Il centrodestra potrebbe far “saltare il banco” spingendo fino all’estremo la fiducia verso la libera iniziativa della persona: siccome chi è sussidiato deve essere incoraggiato a cercare attivamente un lavoro perché più è lungo il periodo di disoccupazione, più è difficile riprendere a lavorare, perché, come propongono tutte le altre forze politiche, inasprire le sanzioni per chi rifiuta una proposta di lavoro (senza chiedersi perché lo faccia, sempre presupponendo che il motivo sia la comodità del divano)? Al contrario, si dovrebbe permettere ai disoccupati che trovano un lavoro prima del termine del sussidio di sommare la parte residua del trattamento di sostegno al reddito al nuovo stipendio. La c.d. condizionalità non ha mai funzionato, per cui questo meccanismo non solo non costerebbe di più per lo Stato, ma sarebbe più efficiente nel ricollocamento perché in grado di attivare la persona, più che gli scalcagnati (ma da potenziare, in coesistenza con le agenzie per il lavoro) Centri per l’impiego. 

Anche terminologicamente sarebbe da ridefinire il termine con cui si identifica l’intervento dello Stato in questa materia: non più “attività” (dello Stato), ma “proattività” della persona. Le nuove politiche “pro-attive” dovrebbero costruirsi attorno al diritto alla formazione “perpetua” (non soltanto “continua”): la modalità potrebbe essere il riconoscimento a tutti i lavoratori di un vero e proprio diritto alla formazione, da realizzarsi mediante il potenziamento (nelle funzioni, non nel numero) dei fondi interprofessionali, degli enti formativi e della formazione secondaria e terziaria per adulti, garantendo a tutti un conto personale per la formazione riconosciuto indipendentemente dal contratto collettivo applicato e dalla natura autonoma o dipendente dell’occupazione.

Il terzo argomento ricorrente nelle pagine dei giornali è il costo del lavoro, in un periodo di inedita spirale inflazionistica. Una cultura anti-dirigista non può accettare l’eterno ripetersi di incentivi una tantum, complessi da comprendere e mai valutati negli effetti. Più ragionevole incentivare la produttività del lavoro, cronico problema del nostro tessuto industriale e dei servizi, detassando al 5% ogni erogazione aziendale o determinata da accordi territoriali. 

È doveroso premiare (e non punire con la progressività fiscale) il salario che ricerca maggiore efficienza, esito di crescente professionalità o, semplicemente, contraddistinto da quella scomodità che spesso è causa del rifiuto alla assunzione, soprattutto nel commercio e nel turismo (prestazioni notturne e nei giorni festivi). Contemporaneamente, andrebbe concluso il percorso di potenziamento del welfare aziendale, già detassato e decontribuito all’interno del TUIR, mediante l’ampliamento dei beni e servizi che non sono reddito da lavoro. In particolare sarebbero da ricomprendere l’ampliamento del valore del buon pasto, le spese per la cura degli animali domestici, per l’affitto degli studenti fuori sede, per le assicurazioni vita e le polizze in caso di non autosufficienza, le donazioni al terzo settore, la mobilità sostenibile. Soluzioni che non si prestano al mero risparmio, ma determinano inevitabilmente maggiori consumi.

Molta attenzione dovrebbe essere infine dedicata al lavoro dei giovani: abbassamento della soglia di ingresso all’apprendistato scolastico a 14 anni; incoraggiamento dell’Istruzione e formazione professionale di competenza regionale, anche in sostituzione dell’Istruzione professionale di Stato; crediti fiscali per le imprese che formano i tirocinanti; potenziamento degli ITS. Misure che non hanno bisogno di costose coperture a bilancio, ma che vengono spesso ignorate perché poco sexy elettoralmente. 

Se il centrodestra vuole apparire come forza di governo, non può accontentarsi di confezionare solo slogan elettorali, anche fossero quelli che hanno avuto successo trent’anni fa, ma ha il dovere di proporre soluzioni concrete e realizzabili oggi, in ogni ambito centrale per l’economia del Paese. Il lavoro è certamente tra questi.

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