Recentemente il Jobs Act è tornato all’attenzione del dibattito politico per la raccolta di firme promossa dalla Cgil al fine di ottenere un referendum per l’abrogazione di alcune norme contrattuali previste dai provvedimenti attuativi della legge quadro. La campagna referendaria facendo di ogni erba un fascio si propone come una tappa fondamentale per avere un lavoro sicuro, stabile, dignitoso e tutelato. Volendo rimanere alla lettera degli slogan gli stessi obiettivi del Jobs Act.
Sì, perché il Jobs Act era il tentativo di metter in moto una serie di provvedimenti attuativi al fine di aggiornare la legislazione relativa al lavoro aumentando le tutele per tutti i lavoratori e renderle meno diseguali, anche per quanto riguarda il sostegno economico per la disoccupazione. I 5 filoni principali che formavano il provvedimento, e che rinviavano poi a provvedimenti attuativi, riguardavano la messa in ordine dei sussidi di disoccupazione per estenderli e passare da strumenti puramente passivi a strumenti di supporto per politiche attive del lavoro. Per gestire e promuovere quest’ultime si dava vita a una agenzia nazionale che aveva finalità di potenziare la rete dei Centri pubblici per l’impiego e favorire una rete di servizi basata sulla collaborazione fra agenzie pubbliche e private per i servizi al lavoro. Infine, una forte semplificazione del sistema informativo e amministrativo che presiede le comunicazioni di assunzioni e dimissioni.
Vi era una nuova regolamentazione del contratto di lavoro per i nuovi assunti a partire dal contratto a tutele crescenti abbinato alla proposta di fissare un salario orario minimo, oltre a interventi per la tutela della maternità per tutte le lavoratrici anche parasubordinate, per la genitorialità, per la tutela del telelavoro e per potenziare la formazione durante tutta la vita lavorativa a partire dal passaggio scuola-lavoro.
Erano misure pensate per un periodo in cui il nostro mercato del lavoro stentava a riprendersi dopo la crisi finanziaria e le politiche monetarie restrittive. Era caratterizzato da un crescente dualismo che faceva sì che i lavoratori avessero tutele diversificate a seconda della dimensione dell’impresa e a questa divisione si sommavano quelle legate alle nuove forme di lavoro subordinato, le prime piattaforme e in generale il lavoro autonomo che in realtà era monocommittente e prefigurava lavoro per obiettivi e telelavoro.
Se oggi, fuori da posizioni ideologicamente preconcette, possiamo dire che nel complesso il Jobs Act ha funzionato è perché coglieva la necessità di modernizzare le nostre regole e i servizi del nostro mercato del lavoro per seguire i cambiamenti in corso e favorire l’estensione dei diritti e delle tutele anche ai nuovi lavori.
La norma sui contratti a tutele crescenti, introdotta fra l’altro per riuscire a superare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, aveva lo scopo di dare basi più solide e automatiche per licenziamenti fatti nel rispetto della legge e poter essere valida per tutti i lavoratori. Poi interventi della magistratura hanno limitato l’interpretazione e l’applicazione delle norme, ma la sostanza è rimasta.
L’insieme del provvedimento coglieva infatti i due cambiamenti di fondo che stavano interessando il mercato del lavoro. Da un lato, si passava decisamente da una vita con un posto di lavoro a una vita fatta di più lavori. La conseguenza di questo cambiamento era che la difesa del lavoro passa dalla difesa del posto alla difesa del lavoro sul mercato. La formazione continua, un sistema di servizi di politiche attive del lavoro, sostegni economici per politiche attive e non per sostegni passivi sono gli strumenti che assicurano l’occupabilità dei lavoratori e diventano le nuove forme di tutele del lavoro non dal mercato ma nel mercato del lavoro.
I processi di cambiamento che all’epoca erano ancora deboli hanno avuto negli ultimi anni un’accelerazione imprevista. La vicenda della pandemia ha determinato un passo ulteriore nei cambiamenti del lavoro e della sua organizzazione nelle imprese e nella società. Pensiamo a come suona antico il termine telelavoro solamente 10 anni dopo la prima normativa che cercava di normarne l’uso e le tutele per gli addetti. Oggi senza una quota di smart working non c’è più nessuna impresa dei servizi. I contratti per i lavoratori delle piattaforme presentano già più esempi di attuazione. La legislazione per la maternità e per la genitorialità è avanzata sensibilmente.
Guardiamo i dati e scopriamo che gli italiani non hanno mai lavorato in tanti come quest’anno. I contratti a tempo indeterminato stanno superando di gran lunga i tempi determinati. La durata dei contratti è mediamente di 5 anni per quelli a tempo indeterminato. La mobilità sul mercato è cresciuta molto più delle attese. Sono cambiamenti strutturali del lavoro sospinti dall’impatto della digitalizzazione, dall’AI, dai cambiamenti del modo di produrre e da quelli richiesti dai lavoratori che chiedono una nuova conciliazione vita-lavoro.
La parte meno attuata del Jobs Act, un sistema di servizi al lavoro capace di gestire il numero crescente di transizioni che caratterizzeranno la vita dei lavoratori nei prossimi anni, è quella che dovrebbe vedere un forte impegno delle rappresentanze sociali e politiche per dare sostanza al richiamo per un lavoro di qualità, con diritti e tutele per tutti. Formazione lungo tutto l’arco della vita a partire da un efficiente sistema di formazione professionale basato su modelli duali scuola-lavoro sono la base per l’occupabilità delle persone e per rimettere in moto l’ascensore sociale.
Difendere il lavoro nel mercato e dargli un ruolo centrale è essenziale per una nuova fase di partecipazione sociale e sviluppo condiviso. Serve un nuovo Jobs Act aggiornato, non perdere tempo per tornare alle regole del lavoro del passato che riaprirebbero le porte a vecchie e nuove diseguaglianze.
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